Dal Febbraio 2013 ad Aprile 2014 Paolo De Falco ha tenuto sul portale Golem una rubrica sul paesaggio culturale italiano dal titolo: Il mercato del vento
Gli articoli che Golem ha dedicato, in questi ultimi mesi, alla “questione cinematografica” in Italia e, in particolare, al ruolo che hanno progressivamente assunto le Film Commission, hanno costituito l’occasione, qualche tempo fa, per uno scambio di considerazioni con l’attore e regista Paolo De Falco. Da questo confronto – un tempo sarebbe stato un epistolario, oggi è stato un assai più evanescente scambio di email – è nata l’idea di una rubrica che fosse una sorta di diario di viaggio, interiore oltre che oggettivo, più che nel mondo del cinema o della cultura, nel codice genetico che rende (dovrebbe rendere) il mondo capace di generare cultura.
Da questa settimana offriamo ai lettori questa rubrica. Abbiamo pensato di chiedere all’autore, Paolo De Falco, di far precedere la puntata d’esordio da una premessa complessiva.
Roberto Ormanni Direttore di Golem
Il mio desiderio sarebbe non tanto di parlare di cinema o del clima culturale italiano, del suo stato di salute o malattia, quanto di scrivere come potrebbe scrivere un esploratore che si è perso dentro un paesaggio familiare.
L’idea di vagare cominciando “a perdere conoscenza”, a perdere intimità con un territorio e i suoi rituali, a favore di un’estraneità stimolante e seduttiva, mi sembra, infatti, una possibilità importante.
Forse sto parlando di una condizione metafisica e non tanto politica o geografica, di un’illusione un po’ vana e irraggiungibile ma ciò che auspico a me stesso, oggi, per continuare a vivere e lavorare qui, è quello di trovare, appunto, uno stato di smarrimento, di abbandono fertile. Di lucidità disponibile alla domanda e alla meraviglia, perfino.
Certo è, che il desiderio di osservare il mondo non può essere contenuto ed espresso, mi verrebbe da dire placato o risucchiato, dalla denuncia costante, dalla lamentela o dall’invettiva.
Né la nostalgia (cosciente o incosciente) e lo specchiamento narcisistico (anche quello generoso e creativo) mi sembra possano rappresentare una risposta significativa di fronte alla realtà.
Se osservare vuol dire restare aperti, darsi del tempo, quello che propongo a me e ai lettori è un punto di vista in movimento.
Una documentazione intellettuale che riflette nella misura in cui prova a cercare gli strati di un paesaggio. A seguirne le tracce nell’ignoto, sia passato che futuro.
Non vorrei apparire criptico ma sento che questo movimento deve avvenire soprattutto nel tempo, più che nello spazio. L’epoca di obliò nella quale viviamo ci ha fortemente indebolito, ma se ci scandalizziamo ancora, se veramente lo scandalo ci scolpisce e a me, purtroppo, mi scolpisce molto, bisogna che esso non ci faccia perdere la capacità-volontà di sentire le sfumature. Quelle sfumature che si nascondono nel tempo e che ci possono aiutare, forse, a dissolvere la stessa tirannia del tempo; lasciandoci meno arroccati nella difesa di una “posizione” unica, meno convinti e deboli di fronte all’assedio del presente.
Quello che è avvenuto e continua ad avvenire nella cultura italiana (ma anche all’estero) è non soltanto questa riduzione sbrigativa e autoritaria per cui la forma è divenuta sostanza, il mezzo è diventato il fine, ma la rimozione di alcuni fenomeni-eventi-persone che hanno messo in campo (o cercano, nonostante tutto, di farlo ancora) una complessità sottile e rispettosa.
Forse la democrazia sta non tanto nell’efficienza di regole sociali trasparenti ed egualitarie ma nella creatività di un paesaggio, appunto. Nel grado di umanità degli esseri che la costituiscono. Intendo dire che quanto più gli uomini si pongono in una prospettiva di ricerca e aprono i livelli della comunicazione, tanto più contribuiscono a creare un terreno in grado di sostenere complessità e movimento. Dunque, partecipazione. Rendendo semplice la complessità. Ovviamente questo è possibile se lo sguardo è ampio e se ci si pone in una relazione problematica con il potere. E parlo di potere a tutti i livelli.
Per questo la mia esplorazione, nonostante desidererei non avesse punti di partenza o peggio ancora tesi da svolgere, credo che si orienterà attraverso una bussola tarata su una stella decisiva per la nostra monotona rotazione.
Qual è, oggi, il rapporto degli uomini di cultura con il potere? Come si pongono, nel quotidiano e nello straordinario, rispetto, non tanto, a chi detiene il comando politico od economico ma di fronte alla loro stessa volontà e possibilità?
Sappiamo cosa è successo affinché la nostra società diventasse così conformista ma poco, forse, abbiamo indagato nel privato, per capire.
Insomma quello che (le propongo) vorrei proporre è una finestra aperta o semichiusa da cui guardare non solo il cinema o le associazioni di stampo culturale, quanto l’animo italiano, il suo stato di libertà o di prigionia, misurandone la temperatura attraverso “riflessioni” e spostamenti nel tempo.
Non solo cinema, dunque, ma anche teatro, danza, arte visiva, letteratura, musica, calcio, televisione, pubblicità, educazione, drammaturgia del paesaggio e altro.
P. De Falco