2004 Riflessioni alle domande di Paolo Ruffini per un libro mai… tornato.
- Dentro la storia come dentro la poesia, il teatro marcisce e con esso la parola e il corpo, mostrando una diversa materia spesso dolorosa.
Si può fare un cinema senza pellicola, senza “girare”, ma un teatro che non va in scena è molto doloroso. Come un sogno che non trova il suo sonno.
Ho fatto il teatro scrivendo in scena.
Poi riflettevo su ciò che accadeva, su ciò che facevo o cercavo, e su quello che facevano gli attori, gli oggetti, lo spazio etc. Ma devo essere sincero… io sono uno che immagina. Ho delle visioni ed esse, a volte, sono staccate, non hanno rapporto con la realtà, altre volte, invece, nascono proprio da suggestioni che mi dà la realtà. Quando ero più giovane, quando ho iniziato a fare teatro avevo molte visioni. Anche le riflessioni teoriche, e studiando la storia del teatro in maniera febbrile esse non mancavano, diventavano immaginazioni. E così incontravo Artaud, Craig, Witkiewicz etc. in luoghi misteriosi stabilendo con loro un’intimità che definirei fisica.
Ad un certo punto nella mia mente si deve essere creata una specie di angolo, di luogo, di casa dove io mi incontravo con questi miei compagni invisibili. Oggi non saprei dire se la Villa dei Giganti della Montagna di Pirandello, che ha così influenzato il mio teatro, è venuta dopo… in soccorso a questa mia patologia, o se è venuta, l’ho conosciuta prima, indirizzando quindi questa inclinazione all’immaginazione onirica… dandogli un luogo più preciso e ulteriori stimoli.
Comunque, il teatro per me è sempre stato una casa. In questo non facevo distinzione tra il teatro sala prove e il teatro incontra pubblico:
Ma la tua parola “marcisce” mi fa pensare al dolore che ho provato e che ancora provo, ora di meno per fortuna, quando queste immaginazioni non sono andate in scena, quando la casa inesistente non si è rovesciata nell’altra casa, ovvero il teatro. Si, lo so, che anche questa seconda non è una casa ma, almeno, la sua inesistenza esiste nella realtà.
Dove sono andate a marcire, dunque, quelle immaginazioni, quel desiderio, quella tensione misteriosa che voleva, chiedeva, un viaggio anche per poi raccontarlo, per esporsi all’attenzione e convertirla in un incantamento, una seduzione?
Non provo neanche a rispondere, ma, anzi, apro una parentesi…. Forse, in un certo senso, una reazione alla tristezza di questa domanda.
Credo che nel teatro ci sia, ci possa essere molto del nostro senso erotico. Mi spiego meglio: la tensione scenica è una tensione anche sessuale, non solamente di tipo visiva ma anche mentale. C’è in gioco una seduzione, il gioco, il dramma, la fatica, le paure, le intermittenze della seduzione. C’è la distanza e la vicinanza insieme, ovvero l’intimità e l’estraneità che convivono. Tutto questo senza che mai si compia l’atto finale dell’unione. Il teatro è privo dell’unione. Quindi privo dell’orgasmo. Il fatto che il teatro sia nato come rituale orgiastico dimostrerebbe questa sua identità “primitiva”.
In realtà gli orgasmi ci sono… credo che avvengano, rarissimi naturalmente, ma sono come delle polluzioni notturne, molto sotto il livello della coscienza.
Il teatro, forse, è una strana miscela di sublimazione ed eccitazione, calo della libidine e depravazione.
Certo, bisogna avere un grado di ascolto del proprio corpo-mente, diciamo almeno sufficiente, perchè si possa riconoscere questa qualità all’esperienza teatrale. E il teatro oggi marcisce proprio perché l’eros è marcio, spento, sepolto dalla ripetizione-mercificazione allucinante dei suoi feticci. Ma resta questa verità sotterranea. Il fatto, cioè, che chi fa veramente il teatro, ovvero chi lo cerca, intendo sia gli attori che gli spettatori, ha una predisposizione al piacere della tensione sessuale. A diventare e far diventare tutto oggetto di desiderio (anche lo spettatore gode nel sentirsi oggetto di desiderio).
La vanità (ripeto degli attori come degli spettatori) è uno degli aspetti di questa “tendenza”. Quello più superficiale, certo profondamente insito in ognuno di noi. Ma la sensualità, al suo più alto grado, è qualcosa che prevede la distruzione dell’io attraverso, paradossalmente, l’esaltazione delle sue capacità, in specie quella dell’ascolto.
Il cinema chiede cose meno “devastanti” al nostro eros: il voyerismo, la visione ravvicinata o comunque “inquadrata” della bellezza, la contemplazione del caso o destino che dir si voglia, sono aspetti che non possono competere con l’intensità dell’essere e non essere nello stesso tempo e nello stesso luogo.
Ma perchè ho parlato di questo? Non lo so.
Marcisce dunque il teatro. Marciamo noi. Anni fa pensavo con vigore che il teatro potevano e dovevano farlo solo i vecchi e i giovani. Oggi , a quasi quaranta anni, non sono più tanto sicuro. Ma resta la sensazione che le cose siano veramente belle o quando sono fresche o quando sono marcite e allora più disponibili a diventare altro, a trasformarsi. Certo, però, che la freschezza non è solo un fatto anagrafico. E che c’è gente, noi tutti, che a volte non troviamo proprio il coraggio di marcire per trasformarci.
- “Narrare” l’altro, un destino?
Narrare l’altro dici. Non so… io direi più specchiarsi, riflettersi, abitarlo.
Anche se l’altro non è una persona ma una cosa.
Il doppio del teatro siamo noi, come pensava Artaud, che indagava le viscere, le vibrazioni. Noi che di fronte alla nostra immagine possiamo anche arrivare a guardarci con distacco, chiedendoci chi siamo.
Credo che quanto più andiamo a fondo nell’esplorazione, tanto più scopriamo la relatività dell’identità.
Vivo il teatro come la caduta in un buco che è caverna e spazio lunare allo stesso tempo, azione e nascondiglio, e poi ancora, atto d’accusa e di difesa. Quando sono in scena cado e dunque tento continuamente di volare… per salvarmi. Istinto di conservazione e nobiltà d’animo coincidono e “sorreggono” il mio corpo.
Se questo è un destino… non saprei dirlo. Non ancora, forse. Anche qui, quando ero più giovane, gridavo, affermavo, volevo che fosse riconosciuto… questo destino. Ma il tempo mette a dura prova ogni cosa. Anche se stesso.
In tutti i casi, in un abuso di sincerità, posso dire che non credo di aver aiutato molto quello che, più che destino, chiamerei vocazione. Perché ho messo diversi bastoni contro il mio talento.
Si sa… chi mette ostacoli maggiori a noi, siamo noi stessi. Subito dopo vengono gli altri. Se poi questi ostacoli, che mi hanno portato e mi portano a fare poco il teatro, rispetto a quanto avrei dovuto, abbiano un senso e paradossalmente dimostrino proprio l’investitura ricevuta, questo non è che renda la questione più piacevole. Avere un destino è una sofferenza, anche se un privilegio.
Poi, scendendo nel mondo delle cose concrete, chi è oggi che si occupa del destino o del talento? Quello vero, quello misterioso?
Quando uno ha talento dovrebbe lavorare… non parlare!
- Una scena svuotata ma piena di fantasmi
Si… la scena si è svuotata nel mio lavoro. Le ragioni sono tante… io tendo alla sottrazione, al levare. Sono salentino, ho il barocco dentro, ma l’eccesso in me si produce, va nella direzione dell’essenziale.
Quando c’è un attore solo in scena, nel vuoto, noi pubblico gli affidiamo molto potere. Se lui vuole può farci vedere molte cose oltre se stesso. Se uno ha il coraggio di stare solo in scena, il pubblico gli presta tendenzialmente più attenzione. Credo che inconsciamente premi il suo coraggio. Io amo l’immaginazione, per questo vado contro l’immagine…. o meglio tento di costruirne di “sfocate”… di irrisolte (da cui nasce il gioco della narrazione).
Come ci racconta l’Infinito di Leopardi sono gli ostacoli che ci fanno immaginare, oppure le vibrazioni, quelle piccole “spinte” che creano a volte, in noi, le cose, le persone, i luoghi.
Il mio lavoro di regista consiste nel potenziare continuamente il mio essere spettatore (e dunque quello del pubblico) fino a farlo diventare attore. Credo che la cosa debba valere anche per gli attori… anche se è un discorso più delicato… più complicato.
In tutti i casi, i fantasmi non fanno male se abbiamo paura. Se abbiamo paura siamo coinvolti.
Se siamo coinvolti non ci annoiamo e cerchiamo una posizione, fisicamente e mentalmente.
Se lo spettatore si muove… lo spettacolo ha un senso. Io lavoro principalmente sullo spettatore… si, gli spettatori sono sempre stati presenti in sala in ogni prova. Ho fatto tantissimi spettacoli in sala prove, forse per questo ne ho fatti pochi in Teatro, ovvero davanti al pubblico reale.
Insomma i veri fantasmi sono gli spettatori. Vengono a trovarci a casa nostra, perchè, certo, li invochiamo, ma restano in disparte, spesso seduti e non si capisce mai bene cosa vogliano. Perché sono venuti.
Se smettiamo di fare teatro forse non vengono più i fantasmi!
- Il cinema oggi, con quale sguardo e cosa si porta dietro del teatro e della danza.
Prima di rispondere a questa domanda faccio un salto indietro.
Io ho cominciato molto giovane a fare l’attore nel cinema. Fu un caso a volerlo. Suonavo allora e un regista, G. Piccioni, mi vide e mi chiese di fare un provino. Così per tre quattro anni ho fatto l’attore nel cinema.
Poi il teatro e la delusione (ero troppo giovane e idealista per sopportare il nuovo cinema italiano) mi spinsero allo studio e al viaggio. E naturalmente alla povertà. Ma quell’ imprinting della macchina da presa è sempre rimasto in me… fondamentale. Così l’ho portato nel teatro, prima inconsciamente, poi sempre più consapevolmente. L’amore per un teatro totale, crocevia delle arti, che trovavo nelle avventure del ‘900, non poteva che essere la conseguenza di questa mia formazione eclettica.
Ad un certo punto nel ‘94 ho fatto un film in video. E poi, saltuariamente, tornavo a girare delle cose.
Ecco, ripensandoci ora… posso dire che il video-cinema mi ha riportato al teatro. Perché mi sono avvicinato così tanto all’attore, alla realtà della tensione tra uomo e spazio, che ne sono stato ricatturato e ho abbassato le mani con cui tenevo la camera. L’esperienza video ha potenziato molto il mio occhio teatrale. Il mio senso scenico. Non so… forse la verità è un’altra… è che sono tornato al teatro perché non si era esaurita la forza autodistruttiva. Il teatro lo è. Il cinema invece sa conservarsi, sa proteggersi di più. Anzi si occupa della memoria. Lo si fa per raccontare… fondamentalmente. Il teatro, invece, per vivere in scena.
Comunque sia andata, fare l’operatore è certamente il punto di contatto più forte tra l’essere spettatore e l’essere attore.
Bisogna ballare intorno ai personaggi, sentendo ogni loro respiro, reagendo, seguendoli, ma rispettando, allo stesso tempo, l’inquadratura, le sue leggi, la sua… arbitrarietà. Bisogna essere insieme dentro e fuori la scena.
Ed è questo che mi porto oggi che sto per affrontare il cinema… quello vero, fatto di pellicola e creato attraverso la macchina complessa che è un set. Farò l’operatore o sarò, anche telepaticamente, vicinissimo a lui Lo spersonalizzerò, entrerò dentro di lui, lo abiterò!
Perchè lui fa il film, lui costruisce i mattoni della casa ed io, ancora una volta, come Marilyn Monroe, voglio abitare nei miei film.
Ho imparato molte cose dai danzatori con cui ho lavorato.
Cose che non si possono spiegare facilmente a parole… che hanno bisogno di altre fatiche.
Anche se posso dire che qualsiasi movimento del corpo non è mai solo una cosa muscolare, un meccanismo di tensione tra respiro e lancio, forza e inerzia, spinta e stasi, non è solo una questione di peso e gravità , di desiderio a sciogliersi nella bellezza, ma anche una questione di volontà, di chiarezza intellettuale, di decisione etica. Non c’è estetica senza l’etica.
Il lavoro sul corpo, che la danza richiede, è una richiesta di verità.
Anna Paola mi ha insegnato quanto sia importante sentirsi comodi in un movimento. Posso dire che, ballando, è bellissimo scegliere la scomodità dopo che hai conosciuto la comodità.
Allora si gioca veramente, perchè tu vai verso lo squilibrio con consapevolezza. Non stai male, scegli di stare male, ma sai come ritornare a… stare bene. Da qui credo nasce la leggerezza che definirei il gioco nel dolore.
Ci possono essere molte crudeltà….
Insomma, oggi, nel linguaggio cinematografico e/o televisivo, che stanno diventando la stessa cosa, c’è un grande uso della steadycam, ovvero della camera che si muove leggera, libera, non imbrigliata da assi e contro assi. Ma, come per l’eros, questà libertà non mi convince.
Molto spesso la sento inutile, non cattura tensioni, non le crea. Credo che la coreografia, arte straordinaria (per me è lei l’essenza della regia), sia una cosa che debba lavorare non tanto sull’invenzione del movimento, ma su come questo entri in relazione con tutto il resto.
Ho imparato molto dai danzatori-coreografi, ma devo dire che spesso ho notato in loro un’assenza del senso coreografico come io lo penso e lo vivo. Secondo me la danza italiana è molto mediocre. O è troppo fisica o è troppo concettuale. Non cerca il rapporto tra le cose, la tensione. E poi non indaga sufficientemente le profondità della musica.
Sentivo il bisogno di dirlo.
Se oggi non faccio il teatro, la danza, forse è anche per questo. Perché c’è, nel panorama italiano, molta vanità, molta superficialità, negli attori come negli spettatori. Tornerà il tempo del mistero, tornerà l’eros a incontrare la morte per fare insieme una passeggiata sul fiume? Sognando il mare galattico? Ulisse dovrebbe essere gia oltre il… digitale! Indietro… sempre più indietro… almeno con la testa. Almeno con il corpo.
* photos by P. Pisanelli