La redenzione del tango

Non si può insegnare un desiderio, ma si può suggerire a qualcuno di muoversi ed esplorare. Il tango può indicarci la strada tra l’essere e il non essere.

Immagini tratte dal film di Paolo De Falco Stella Loca - Un ritratto di Buenos Aires, 2006
Immagini tratte dal film di Paolo De Falco Stella Loca – Un ritratto di Buenos Aires, 2006

Riprendiamo la conversazione con Samantha Di Paolo, ballerina e insegnante di tango argentino. Chi avesse perso la “puntata” precedente, può naturalmente trovarla qui accanto o cliccando sotto, alla voce Il mercato del vento, titolo di questa rubrica, accedendo al suo archivio con tutti gli articoli.

Samantha ci ha raccontato la sua visione del tango e di come sta tentando di usarlo vivendolo e considerandolo un linguaggio “aperto”, un linguaggio denso e montato Tommy19articolato che predispone e necessita di una sensibilità scenica e artistica profonda.
Provando quindi a non rimanere imprigionata dalla sua dimensione tecnica o formale,  ma esplorandone, invece, i suoi diversi livelli, le sue sfumature, anche in chiave terapeutica.
Continuo a farle delle domande, allora, per viaggiare insieme a lei dentro questo universo del tango che continua ad affascinare tante persone…

Allora Samantha, tu hai vissuto a lungo a Buenos Aires e hai sposato un musicista argentino  di tango. Che differenza c’è tra il tango di lì e quello italiano? Mi riferisco a come lo si balla, ma più in generale a come lo si vive. E cosa pensi di questa continua devozione nei confronti di Buenos Aires che, devo dire, io trovo piuttosto provinciale e a volte proprio fastidiosa… Naturalmente non si può non riconoscere che il tango porteno sia speciale, che gli argentini lo ballano benissimo e che questa mitica città, nata con l’emigrazione, sia stata e continui ad essere, per molte ragioni, la culla, l’habitat ideale per il tango. Ma non è forse interessante vedere come ogni cultura e luogo vive e interpreta diversamente il tango? Come un linguaggio diventi patrimonio dell’Umanità proprio in quanto riesca a viaggiare, a radicarsi altrove, a mischiarsi diventando, appunto, uno strumento e non un fine?

La differenza tra il modo di vivere il tango a Buenos Aires o Montevideo rispetto ad altrove è  nel percepirne l’insieme come cultura. Il tango a Buenos Aires non è solo un ballo di coppia.
Ad esempio, della mia famiglia argentina, sia paterna sia acquisita, nessuno è milonguero (frequentatore di milongas e quindi ballerino sociale), ma ho uno zio molto tanguero, nello spirito. Nel modo di essere, anche ironico, disincantato ma fondamentalmente drammatico.
Normalmente a Bueonos Aires conoscono i personaggi importanti del tango, i parolieri, qualche testo importante, e la musica passa in radio o per le strade fuori dai negozi di dischi per attirare i turisti, e quindi alla fine entra “dentro”. Tra i taxisti ci sono molti tangueri, è un classico. Ascoltano tango ma magari non lo ballano affatto. Ci sono i musicisti, ma quello che ho sposato io no, non è affatto realmente tanguero, la sua cultura musicale è molto rock e pop, ma il tango gli appartiene comunque per averlo assimilato  perché è parte del “pulso” di Buenos Aires.

montato Tommy33 Il tango è nei suoi caffé ad angolo, nella frenesia, negli incontri fugaci e mancati, nella nostalgia che guarda altrove di un luogo che come genius lociha la malinconia indefinita. Sempre fuori tempo, sempre fuori luogo. Certo, anche a Buenos Aires il marketing del tango ha lavato via buona parte dell’autenticità di una tradizione. Però è chiaro, per capire davvero il tango, bisogna conoscerne la cultura, viverla a fondo e durante un certo arco di tempo. Vivere anche le esperienze che si passano guadagnandosi da vivere a Buenos Aires, in piena precarietà.

Succede che non tutti gli argentini ballano bene. Non c’è una ragione antropologica chiara per la quale dovrebbe essere così.  E’ una questione culturale e non ha a che vedere con il talento della danza. In realtà, la vera differenza ha a che fare con l’attitudine. L’attitudine sottilmente, e a volte neanche tanto sottilmente, arrogante.  L’attitudine arrogante che maschera la ricerca di appartenenza. E la necessità di sapersi furbi e in grado di fregare prima di essere fregati.
La fregatura è sempre messa in conto, la si dà per scontata. In tutte le relazioni orizzontali o verticali. Credo somigli a Napoli, sì… somiglia decisamente a una certa energia napoletana. Che è sbarcata lì. Ed è l’energia del disordine, del meticciato, dell’umorismo nero. Poi, esistono infinite barzellette sul narcisismo argentino.
Ciò che attrae quindi lo straniero è questa attitudine. E nel momento in cui devi entrare in un’arena a esibirti, senza questa arroganza, potresti essere perduto.

Ora, la differenza sta quindi nell’isolare del tango solo la danza. Personalmente ritengo che non si possa prescindere dal contesto di una creazione popolare, isolandone un solo elemento.  Il fenomeno “moda” del tango in Europa, che insieme con quello porteno è quello che conosco meglio, non mi convince affatto.  Non sono d’accordo con l’atteggiamento reverenziale né con l’ansia imitativa acritica delle milongas di Buenos Aires ma sapere il perché di una certa espressione sociale per me è fondamentale. Certi “codigos” ovvero regole di comportamento, hanno un perché ben preciso e spesso sono di aiuto al tango. Come, ad esempio, la “mirada”.  La mirada è l’invito non verbale, attraverso lo sguardo. Vale sia per la donna che per l’uomo e afferma la libertà di scegliersi piuttosto che di subire un invito non gradito in quel momento.
Un’altra cosa che rilevo come differenza nel tema della riverenza è il fraintendimento che accade nella scelta della musica. Spesso per atteggiamento di devozione in Europa si sceglie musica che a Buenos Aires non ballano neanche. Lo si fa per un eccesso di tradizionalismo e severità… quando invece a Buenos Aires la scelta della musica risulta essere più libera, anche all’interno della tradizione.

Ogni luogo riceve e trasforma in ogni caso inevitabilmente un fenomeno culturale, e questo è naturale e interessante. Però, per me, sono le intenzioni che contano. Ad esempio, montato Tommy39nell’Europa nordica sono più composti e attenti allo studio del movimento e magari anche all’ascolto della musica, s’ impegnano e il livello di ballo cresce di livello. Ma manca attitudine. In Italia invece c’è molto glamour, una tensione simile a quella che si respira nelle milongas di Buenos Aires, ma poca dedizione tecnica al ballo. Beh, in fondo, le eterne differenze. Dopotutto molto dell’attitudine italiana fa parte del tango. Molto del suo genio anche. Basta studiare, appunto, la cultura del tango.

C’è una controtendenza europea alla riverenza verso l’argentinità tanguera… si basa sull’isolare l’elemento “danza” del tango da tutto il resto, aggiungere molto glamour comunicativo sociale, una certa quota di “esclusività” agli eventi. Il glamour inevitabilmente opera un’esclusione piuttosto che un’inclusione e si perde molta della spontaneità popolare di questa espressione creativa.  Questo non mi piace, perché si esclude il fattore cultura in senso ampio.
Il tango non come espressione folcloristica  ma come linguaggio artistico appartiene senz’altro all’Umanità intera, perché umani e universali sono i contenuti che indaga ed esprime. La tematica della ricerca di un senso di appartenenza, il senso della perdita, la lotta per la sopravvivenza, la sofisticazione del dolore, la ricerca di contatto con l’altro e il pulsare del maschile e femminile.

È molto interessante quello che dici sull’attitudine e anche sul rapporto con Napoli. Capisco cosa tu voglia dire quando parli di questa sottile arroganza che maschera la ricerca di appartenenza. Credo sia molto importante questo aspetto e vorrei aggiungere qualcosa.

Ho lavorato per un po’ a Buenos Aires e viaggiato in Argentina e sono d’accordo che molto del fascino di questa città deriva da questa atmosfera insieme eccitante e malata, febbrile e sfinita, forte e debole. E che questo derivi dalla patologia dell’emigrazione, dal suo intreccio di desiderio e di nostalgia, di amore per la radice ma anche per la frontera.

Ho fatto un film su Buenos Airesche si chiama Stella loca che finiva nell’Hotel des Inmigrantes, luogo dove un tempo sostavano tutti gli immigrati appena arrivati, e lo faceva restituendo la soggettiva di uno sguardo perso nel buio di quelle stanze superiori  dell’Hotel, abbandonate da tempo, che si ergono su quelle dei montato Tommy43primi piani dove, ora, il Governo argentino ha “costruito” il suo Museo dell’emigrazione.

Lo sguardo proveniva, in verità, da un percorso-smarrimento nel Palazzo Barolo, uno degli edifici più importanti di Buenos Aires, costruito da un architetto italiano (Mario Palanti) e ispirato alla Divina Commedia di Dante. Un palazzo che, per diverso tempo, è stato l’edificio più alto dell’America Latina, quello da cui guardare più lontano.
Così, da una piccola porta in cima alle scale, lo sguardo passava dai tre regni “ultraterreni” del Palazzo alle scale polverose dell’Hotel des Inmigrantes, perdendosi gradualmente nel buio della notte. Fino a trovare una sola via d’uscita: quella di ballare da solo nell’oscurità.

Il film finisce con questa danza che resta sospesa tra il nero dell’interno e la luce diafana del fuori, tra l’archivio dimenticato di tutte quelle carte abbandonate a terra con i nomi degli emigrati passati lì, e i grattacieli di fronte avvolti dalla nebbia, come un paesaggio “rubato” al futuro o più semplicemente al terzo millennio.
Racconto questo per dire che non si può sentire Buenos Aires senza percepire questo “passaggio”. In quell’Hotel, anche se quasi nessuno lo ha scritto, è nato il tango.  Le stesse grandi, lunghe e vuote sale dell’Hotel ispirano camminate coraggiose capaci di affrontare la sfida del vuoto. Camminate solitarie che anelano a trovare la resistenza, il contenimento di un altro corpo o di un altro stato. A trovare una via di fuga o una salvezza.

Quello sguardo era quello di una giovane donna italiana, come te, che era giunta lì dopo un suo errare disordinato ma preciso, come obbedendo ad una volontà segreta della città. Un’anima femminile (che potrebbe appartenere anche ad un corpo maschile) capace di accogliere e di avvertire la magia e il pericolo di Buenos Aires, mentre si chiede se emigrare o restare nel suo paese. Un’anima capace di ricordare e di dimenticare tutto nello stesso tempo, che si lascia muovere da qualcosa d’invisibile e di liberatorio, mentre procede con ostinazione e  con coraggio, incatenata solo ai suoi passi nel buio e alla sua stella loca… lassù.
Del resto molte donne italiane da alcuni anni si perdono a Buenos Aires con la “scusa” del tango, cercando un abbandono che forse, altrove, non riescono più a montato Tommy44trovare.

Vorrei anche aggiungere che questa arroganza che maschera la ricerca di un’appartenenza ha forse, come dici, a che fare con Napoli perché Napoli ha radunato il fallimento dell’Italia.
Uno storico, Guido Crainz, ha chiamato, tempo fa, un suo libro sulla storia italiana Il paese mancato, perché è innegabile che il nostro sia un paese che non è ancora riuscito ad “unirsi”. Napoli, candidamente avrebbe detto Pasolini, contiene questo fallimento e lo risolve a modo suo, con un’arroganza capace non solo di sopravvivere ma anche di ignorare l’arroganza di chi non ha l’anima per sentire la bellezza del fallimento. La resa, del resto, è per gli “scalognati”, per i miserabili, per i perditempo. Coloro che, alzando o abbassando le mani, si consegnano al tempo senza neanche saperlo…

Si, il tango esprime essenzialmente una poetica della migrazione. La migrazione tra il dentro e il fuori, tra il lontano e il vicino, tra il ricordo e il presente. Buenos Aires contiene la poetica, il dolore e il riscatto della migrazione nelle sue fondamenta.
E a me risuona moltissimo tutto questo, perché la mia vita personale è in una condizione di nomadismo costante. Di ricerca di radici che non ho avuto concretamente ma che ho dovuto inventare e ricercare.  E di incontro continuo con una frontiera. Sono figlia di emigrati, nata all’Estero, non in Italia. Non mi apparteneva assolutamente il mio luogo di nascita, mi sentivo sradicata e legata a un’Italia idealizzata che vedevo solo 5 settimane l’anno d’estate e che anelavo. Studiavo la lingua e la storia della mia cultura-appartenenza solo un giorno alla settimana. Non volevo fare altro che tornare. Ma poi, tornando, ho realizzato che ormai l’inquietudine mi si era impressa dentro come un calco e che avrei continuato a cercare il luogo della mia appartenenza per il resto della mia vita. Ne parlo perché è un piccolo intimo dramma che ha influito sicuramente nello svolgimento della mia vita personale e professionale, nell’incontro col tango.

montato Tommy46Forse per arrivare a capire o a sentire che la mancanza non è un dramma ma un’opportunità, una ricchezza, che l’emigrazione, fondamentalmente, amplia il nostro destino più che ridurlo, lo rende più fertile e più vicino all’essenza della vita, alla sua meravigliosa vanità, bisogna “ballare” molto, fare molti km… Finché, piano piano, le radici si svelano (o si trovano) dove erano sempre state…
Per ultimo, vorrei chiederti: il tango è un mondo che per molti versi si può considerare piuttosto maschilista. Questo sta cambiando o perdura staticamente? In tutti i casi una donna come può esprimersi in questo ambiente (anche nell’insegnamento) senza reverenze e sottomissioni al maschio?

Parlando di machismo, tocca analizzare il tango nella sua complessità culturale. E’ certo che l’immagine femminile dei testi tradizionali del tango rimanda a una condizione di passività. Del resto, è storia dell’umanità, niente di nuovo. Le donne come sempre venivano divise nei due grandi filoni della martire e della puttana, come da cultura giudaico-cristiana. In fondo questa doppia lettura inconscia, perché non più politically correct, permane sottilmente anche nei nostri giorni.

Nei testi tangueri c’è la madre, la povera madre che è tutta sacrificio e nostalgia. La madre che come il “barrio”, il quartiere, è un canto alla nostalgia.  E c’è la donna che da virtuosa fa un passo falso e cambia la sua sorte di poveretta e dignitosa, per diventare oggetto sessuale, a causa di un amore infausto per un uomo che la sfrutta e la vende. C’è la donna sensuale che si districa nella girandola della vita viziosa e che affascina, incanta, abbandona. O viene uccisa dal suo uomo geloso.
Per il tema del femminicidio c’è un tango che si intitola “Un crimen”, nel quale l’uomo in questione descrive poeticamente come ha strangolato la sua amante innocente in un accesso di gelosia:
Y vi neblina en sus ojos
Cuando mis dedos de acero,
En su cuello de nácar
Bordaron un collar.
Rodó besando mis manos
Y apenas pudo gritar,
Su voz se ahogó sin reproche
Y así mansamente, tuvo fin su noche.
Tengo su angustia en mis ojos
Y no la puedo arrancar.
E  vidi nebbia nei suoi occhi/quando le mie dita di ferro/cinsero una collana/nel suo collo candido. Si accasciò baciandomi le mani/appena poté gridare/la sua voce affogò senza unmontato Tommy48rimprovero/ e così, mansueta/trovò fine la sua notte. Ho la sua angoscia nei miei occhi/ e non la posso staccare.

Un altro testo molto forte che si intitola “Confesion” recita:
Fue a conciencia pura,
que perdí tu amor,
nada más que por salvarte;
hoy me odiás y yo feliz,
me arrincono pa’llorarte.
El recuerdo que tendrás de mí,
será horroroso,
me verás siempre golpeándote,
como a un malva’o;
y si supieras bien, que generoso,
fue que pagase así,
tu gran amor.-

Sol de mi vida,
fuí un fracasa’o;
y en mi caída,
busqué de echarte a un la’o.
Porque te quise tanto,
tanto, que al rodar;
para salvarte,
solo supe hacerme odiar.-
Fu con piena consapevolezza/che persi il tuo amore/solo per salvarti/oggi mi odi e io felice/mi nascondo per piangerti.
Il ricordo che avrai di me sarà orribile/mi vedrai sempre picchiandoti/come un bastardo/e se solo sapessi, che generoso/fu che io abbia pagato così/il tuo grande amore.
Sole della mia vita/sono un fallito/ e nella mia caduta/ ho voluto lasciarti da parte/
Perché ti ho amato tanto/tanto che cadendo/per salvarti/solo seppi farmi odiare.

Pensare che balliamo abbracciati testi del genere dà da pensare al fatto che stiamo danzando su una relazione malata e ferita tra uomo e donna che però cerca una redenzione. E la redenzione è offerta proprio dalla danza di coppia del tango, da quell’abbraccio, da quell’infinita complessità.
La genesi del tango contiene, d’altra parte, se parliamo di maschilismo, una matrice di dolore e perversione nella relazione col femminile. La storia del tango in qualche punto si intreccia con il fenomeno dell’importazione di prostitute dall’Europa, anche definita come tratta delle bianche.
La storia delle tratte la conosciamo tutti ed è sempre sostanzialmente uguale a se stessa nei secoli e nei luoghi: l’inganno, lo sfruttamento, la violenza, la violazione dei diritti elementari, lo svilimento della persona, la morte.
Impossibile ignorare una simile potente cellula dell’insieme.
Comunque, parlando del ballo, credo ci sia un fraintendimento di base sui ruoli del tango, che percepisce attivo il ruolo di chi porta, quindi quello maschile, e passivo il ruolo di chi segue, quindi quello femminile.

La questione è complessa e delicata, ma sostanzialmente la verità è che entrambi i ruoli sono attivi. Ma in modo diverso. In modo complementare. La redenzione è nel lasciar brillare la bellezza della differenza. Poiché l’incontro reale può solo avvenire nel riconoscimento assoluto della potenza di entrambe le facce di una stessa medaglia. L’incontro avviene nella differenza e nella collaborazione per ricreare il paradiso perduto dell’unità, dell’appartenenza.
Credere che seguire sia passivo è un fraintendimento che avviene spesso. Alcune donne si ribellano e non ne vogliono sapere, e quindi resistono irrigidendosi. O fuggono. Da parte loro, alcuni uomini credono che portare significhi trascinare un altro corpo con la forza e piegarlo al proprio volere, o correggere sempre e comunque la donna. Alcune donne si abbandonano a peso morto in un’illusione di mancanza di responsabilità e si lasciano trascinare qua e là. Ebbene, questi sono tutti fraintendimenti di cosa sia realmente ballare tango.
Ballare un tango significa avere ben chiaro il dispiegarsi della propria creatività dalla propria metà dell’abbraccio, al servizio, e dico al servizio, della creazione comune. Non può esserci competizione. Sebbene avvenga spesso, in particolare tra professionisti, che uno dei due voglia brillare più dell’altro. E allora si vedono ballerini che girano intorno e sorreggono ballerine, o ballerine che girano intorno a ballerini persi in un monologo di destrezza autonoma e scollegata dalla coppia. Credere che questo sottotesto non venga percepito da chi guarda è francamente ingenuo. Non funziona mai quando è così, poiché ci sarà sempre la dissonanza della competizione o dell’uso dell’altro per i propri fini narcisisti. Viene fuori la rappresentazione artistica di uno squilibrio, che pure può dare da pensare.

Quando le cose funzionano, “portare” significa assumere su se stessi la responsabilità della direzione spaziale del movimento comune, comunicare con chiarezza dove si vuole andare con l’altro, cosa si vuole fare e quando. Significa assumere su di sé la gestione dello spazio intero e condiviso con le altre coppie, e la responsabilità dell’interpretazione musicale generale, ma non particolare e sottile. Significa offrire uno spazio di sicurezza a chi si vuole invitare a viaggiare con sé, accogliere nell’abbraccio, proteggere, e guidare senza soffocare. La chiarezza delle direzioni è il grande dono specifico maschile alla relazione danzante. Per essere chiari bisogna fare un grande lavoro. Ed è un lavoro di servizio. Un lavoro nobile. Non è forse tutto questo il principio maschile nel suo aspetto luminoso? L’attitudine alla gestione dello spazio, alla protezione, alla chiarezza delle direzioni? La linea? La decisione? Come donna non posso percepire questo come aggressivo e umiliante nei miei confronti, no. Perché se io che voglio, che scelgo di seguirti, accetto questo gioco, voglio sentirmi accolta e protetta, al sicuro tra le tue braccia, perché io non vedo dietro di me quando avanziamo insieme, e voglio potermi fidare di te.
Se tu sei la linea, io sarò il cerchio, il punto. E la divagazione creativa. Riceverò la tua linea e i miei piedi come frecce la manifesteranno, ma sono io stessa che decido di muovermi e lo faccio col mio modo personale. Con la bellezza della mia particolarità. Come donna, non solo ricevo, ma trasformo. Io non eseguo, io trasformo. E tu ricevi te stesso da me trasformato e a tua volta ti trasformi. E trasformare te ha trasformato anche me.
Tu attraversi me… come io te… e questo non ci lascia indifferenti. In tutto questo dialogo, nel frattempo, la musica c’ispira, lo spazio cambia ed esige adattamento continuo della nostra improvvisazione. Nella musica, io posso scegliere come muovermi, cosa prediligere di me nella mia espressione per te. Cosa voglio farti vedere di me. Posso rallentare, per farti sentire come sento, ma sarò duttile a seguire la tua nuova direzione. Così la libertà dell’uno e dell’altra entra ed esce nei reciproci spazi, tempi e ruoli con l’unico intento di creare un accordo tra due sensibilità. Un accordo costante, plastico e in continuo divenire, attimo per attimo.

Come vedi, il maschilismo rovinerebbe tutto. Nella danza del tango, la “funzione” uomo è strettamente connessa e interdipendente alla “funzione” donna. Perché si lavora insieme alla creazione di qualcosa che sta fuori di noi, una terza entità, una creazione artistica improvvisata e condivisa che è… un tango.
In quanto all’ambiente di lavoro, e allo spazio sociale della milonga, al di fuori della redenzione offerta dal ballare insieme, le dinamiche del maschilismo e del dominio si manifestano ancora.

E’ un ambiente molto duro in quanto la tendenza al glamour rende il corpo un oggetto.  La donna deve spesso fare i conti con l’apprendimento dell’attesa. In realtà, attraverso il gioco della “mirada”, l’invito con lo sguardo, l’accordo non verbale, il suo ruolo in pista e nella scelta è del tutto pari a quello maschile. Ma accade che in molti luoghi fuori Buenos Aires non sia in uso questo strumento. E allora bisogna imparare ad aspettare mantenendo alto l’umore. Ma l’attesa può essere una opportunità per l’osservazione senza cedere all’impazienza del desiderio.

Le dure regole del glamour colpiscono anche la coppia di ballerini nel momento dello show: dare prova di destrezza, di eleganza, di bellezza. Rispondere a dei canoni estetici predefiniti. Ovviamente, come succede in generale in tutto il contesto sociale, la donna ne soffre di più. Il suo corpo deve essere giovane, bello, elastico, sensuale.  I canoni estetici sono predefiniti.  Ciò non toglie che si possa e si debba lavorare in una direzione di affermazione artistica, e l’arte ha sempre in sé una chiamata al servizio che trascende il glamour.
In quanto alla relazione coi compagni artistici, c’è da dire che in generale gli uomini hanno più difficoltà a mettersi in discussione. In particolare in questo ambiente nel quale la loro mascolinità è continuamente sotto pressione, così come, del resto, la femminilità per le donne. Di solito, tendono a ripetersi dei modelli, come ad esempio lo sfruttamento del lavoro della parte femminile nella coppia per quanto riguarda gli aspetti di gestione dell’agenda. Oppure un’estrema volubilità dell’uomo che tende a cambiare partner molto facilmente, alle prime difficoltà caratteriali, ricercando la compagna che accetti senza discutere tutto e sempre.  Ma non mi pare sia poi così diverso dalle problematiche di coppia nella vita.
Quando si crea una coppia di tango solo artistica, quindi non nella vita, è interessante notare come le dinamiche relazionali siano talmente pervase del maschile e femminile, in accordo e in conflitto, da somigliare a una specie di relazione di coppia sublimata. Non è come essere colleghi d’ufficio, per intenderci.
Per muoversi in questo ambiente come donna, a volte sola, occorre una certa disponibilità alla negoziazione col maschile e la sua parte oscura. Molta pazienza. A volte lasciar correre o lasciar andare anche se si avrebbe voglia di discutere.
Il mio percorso nel tango è stato molto vario, ho lavorato con diversi compagni, nella maggior parte dei casi solo compagni di lavoro. Ho imparato molto sulle relazioni, molto ho sofferto, e ho anche provato molta rabbia. Ma indicibile è tutto ciò che un’esperienza del genere può offrire. Per questo sento il desiderio, nel mio percorso, di condividere e approfondire il lavoro sull’aspetto relazionale di questa danza. E sulla redenzione dal conflitto del maschile e femminile.

Già la redenzione… L’intensità delle tue parole e della tua esperienza mi ha fatto pensare che sarebbe importante che tu potessi portare la cultura del tango nelle scuole, raccontandola e facendola provare ai ragazzi. Quale migliore educazione sessuale e relazionale potrebbe esserci come il tango, come la danza? Aiutare i corpi e le anime a sentirsi è la migliore forma di educazione che noi adulti potremmo pensare per i nostri figli…
Io metterei la danza, molto più che il teatro (che ancora s’identifica, purtroppo e assurdamente, con la parola o la letteratura teatrale) come materia obbligatoria nelle scuole.
Metterei di fronte i ragazzi e le ragazze, chiedendogli di ascoltare la musica e di abbracciarsi senza timore, se lo sentono. O di cercarsi nello spazio, provando a sentirlo amico dei loro desideri.

Non si può insegnare un desiderio, ma si può suggerire a qualcuno, piccolo o grande che sia,   di muoversi ed esplorare. Magari lentamente e senza fretta.
E si può abbassare la luce, anche in pieno giorno, e fare lezione a lume di candele e con la voce sussurrata, come provava a fare l’insegnante di musica ed estetica dell’indimenticabile film Insalata russa  di Y. Mamin, prima che l’incanto di quella sua lezione fosse infranto dall’arrivo del bidello.
La porta si apriva, sul più bello, e la luce si riaccendeva senza pietà alcuna, facendo apparire un uomo con delle grandi scatole in mano… contenenti dei computer.

O si può tirare fuori la “poesia” di un ragazzo incitandolo a non far passare l’attimo fuggente, ritraendosi al momento giusto e nel posto giusto.
La redenzione è nell’ascolto, a mio parere, continuo e instancabile. Il solo che può avvicinarci tanto da far sparire anche solo l’idea dell’appartenenza. L’appartenenza, la fiducia sono in noi e oltre di noi. Un tango può indicarci la strada di questa radice e di questa frontiera, in mezzo alla quale stiamo tutti… in attesa. Tra l’essere e il non essere.

Paolo De Falco

Il nodo alla gola

Conversazione in due tempi con Samantha di Paolo, ballerina e insegnante di tango argentino. L’energia del contenimento e il laboratorio di relazione, l’equilibrio di lusso e lo spazio-tempo del “noi”.

Il nodo alla gola

Ritroviamo, oggi, dopo diversi articoli solitari, lo spazio di una conversazione.
Una conversazione ha (o può avere) un clima,  un’intensità, una bellezza e perfino un’utilità che il viaggio solitario difficilmente può raggiungere. Anche se c’è solitudine e solitudine, anche se non si è mai… soli.

E per riprendere il vento di questo spazio condiviso quale miglior argomento del tango!
Quale migliore conversazione o meglio scenario in grado di restituire il tema della vita o del desiderio che di essa abbiamo?
La vita, qualcuno ha detto, è un terreno che scivola senza sosta.
Il tango, certo, sa come scivolare nei corpi e con i corpi. Ha un potere che è difficile non vedere o meglio sentire.  Molti, infatti, desidererebbero saperlo ballare o saperlo suonare e soprattutto negli ultimi anni questo potere sembra svilupparsi, allargarsi quasi come se ci fosse una ragione segreta di questa sua diffusione, di questo suo contagio.

Ma è veramente così? Davvero il tango sta portando l’umanità da qualche parte? O la sta, invece, incantando per ingannarla, per distoglierla, per sottrarla da qualcosa, fosse pure, questa cosa, una frontiera o una radice mai ferma?

Ne parliamo con Samantha di Paolo, una ballerina e insegnante di tango argentino italiana ma che ha vissuto a lungo a Buenos Aires, dove ha studiato, esplorato e ricevuto la cultura del tango ancor prima che le sue tecniche e i suoi codici.

Allora, Samantha, comincia con il raccontarmi che cosa è il tango per te e soprattutto come si è evoluto il vostro rapporto. Intendo dire come si è trasformato, se si è trasformato, il tuo modo di ballarlo e il tuo modo di insegnarlo. Ma anche la tua  più generale relazione con l’ambiente del tango, sia quello professionistico che quello ordinario, composto dalle tante persone che lo amano e lo ballano nelle milonghe…

Definire il tango e me stessa significa inevitabilmente riconoscere che la mia vita ne è intessuta in maniera diretta da 18 anni e in maniera sottile da sempre. Mi ha accompagnata nella mia formazione sentimentale e professionale, nello sviluppo da adolescente a donna e anche madre: la mia stessa bambina è nata da un incontro del tango.  Insomma è stato presente in quasi tutto ciò che ho fatto e vissuto dai miei 19 anni in poi. Ma, come dicevo, sentivo che il tango mi apparteneva, o io a lui, da sempre. Si dice che il tango non lo scegli, ma ti sceglie.

Ho sempre avuto  nella mente l’immagine esatta di cosa dovesse essere una coppia di ballerini di tango. Di cosa si sentisse. Ascoltavo sin da preadolescente musica di Astor Piazzolla e la sentivo come la colonna sonora della mia vita interiore. Seppur si dica che Piazzolla non sia il tango ma musica di Buenos Aires, contiene sicuramente la vibrazione del tango. Non so dove mi sia entrata questa sorta di memoria né dove. Ricordo molto bene il giorno della mia prima lezione di tango: mi sono sentita a casa. Ho provato un senso di appartenenza. Non ero stupita, né eccitata. Ero calma, lucida e mio agio. Venivo da qualche anno di danza moderna, classica, e dal flamenco. Ma col tango ho sentito che la mia ricerca di un mezzo espressivo si poteva fermare e ripartire da lì. In realtà ciò che più mi attraeva e attrae è la possibilità relazionale con l’uomo in un modo che solo il tango mi sa dare.  Mi affascina follemente questo aspetto di relazione delimitato dalle regole dello spazio e del tempo, con la sospensione della parola. Credo di non aver conosciuto ma riconosciuto il tango in me.

Credo che questa appartenenza che si prova abbia a che vedere con la particolare energia del CONTENIMENTO.  Il contenimento è come un fiume arginato.  E’ un nodo alla gola. Un impulso che non si permette di sfogare se non poco alla volta. La dilatazione cosciente di un istante.  Ha a che fare col dolore. Contenere e contenersi può far male. Anche con la malinconia ma senza… distacco. Una malinconia pienamente assunta e attraversata in corpo. Una malinconia atavica e a volte contingente. E’ una tensione sottile e costante, un desiderio di abbandono che non si concretizza. Non una esplosione, ma piuttosto un’implosione. Credo somigli al blues. Piuttosto, la canalizzazione di un desiderio primitivo di fusione. Sei a metà tra la testa e la pancia. Sei vicino al cuore, e aprire il cuore è l’esercizio massimo di comunicazione che possa avvenire in un incontro. Può diventare intimo o un completo disincontro, molto più di qualunque altra situazione danzante, per tutti questi motivi. Per ballare bene devi saperti controllare, devi avere equilibrio personale, devi costruirti un equilibrio di lusso, come direbbe Eugenio Barba, per creare una terza entità: lo spazio/tempo della coppia, del noi. E devi saper gestire continui cambi di dinamica. I cambi di dinamica che la musica ti chiede. La musica e le parole del tango riflettono perfettamente questa energia del contenimento.  Sospensioni, sfoghi stemperati, riflessioni. Una passione cerebrale.  La sofisticazione di un impulso.

Ho viaggiato da subito a Buenos Aires, dopo pochi mesi, perché ho una parte della famiglia di mio padre laggiù.  E anche in quella città ho sentito di essere a casa. Perché è una città che accoglie tutti e non fa domande. E’ il luogo-non luogo. Guarda all’Europa, guarda lontano, imita, eppure la sua identità è quasi una non-identità. Un ibrido.

Ovviamente, come capita a quasi tutti coloro che scoprono l’appartenenza al tango, ho passato una fase di totale dedizione e iniziazione ai misteri, ai rituali e alla gavetta del suo mondo notturno e bastardo. A Roma ero, con un’altra ragazza, la più giovane tanguera. A Buenos Aires c’erano già i giovani. Ballavo, desideravo, amavo, e soffrivo. Mi viene da ridere a dirlo così, ma giuro che soffrire è parte delle regole del gioco. Il dazio da pagare. L’attesa, la frenesia e l’arte di contenerle. Tanta ingiustizia, tanto espiare, la coscienza di dover accettare cose che una donna emancipata non vuole più, ma che stanno lì, e che dopotutto in qualche modo ti insegnano a diventare donna. (spiego meglio nella domanda relativa al machismo)

Non avevo previsto di diventare una ballerina professionista. Studiavo all’università, cercavo, ero in una fase di apertura e curiosità come ogni ventenne.  E’ successo fluidamente, semplicemente. Senza sforzo alcuno.

A volte penso che ho transitato in un mondo troppo adulto mentre i miei coetanei andavano in discoteca o al pub. Ma non potevo farne a meno.

Quando è diventato il mio lavoro sono riuscita a farne il mezzo di sostentamento economico, laurearmi, dedicarmi agli aggiornamenti e viaggi continui. Ho passato anni a Buenos Aires ballando… milongueando. Qualche show nei locali  per turisti, spettacoli francamente non proprio  gratificanti a livello artistico, studio intenso, provando e passando esperienze brutte e belle.

Ricordo il tango a Roma di 18 anni fa, era tutto molto diverso. Lo ricordo con un po’ di nostalgia. Era molto “underground” e anche un po’ snob, gente che era interessata anche all’aspetto culturale. Professionisti, intellettuali. Non c’era l’affanno del marketing e della moda. Ci si compiaceva del fatto che non fosse di moda ma che fosse una confraternita segreta, piuttosto.

A Buenos Aires invece all’epoca la cosa molto bella era che si trattava di un momento di transizione tra il vecchio e il nuovo.  Potevi ancora vedere gli anziani fare il loro tango e avvicinarti per studiare ma dovevi carpire le cose dall’osservazione e dal “tra le righe”. C’era la nuova generazione emergente che già raffinava molto il tango danza attraverso la conoscenza e il dominio della danza accademica e del teatro. Usciva la nuova didattica di de-strutturazione della trasmissione tradizionale e orale del tango che funzionava per sequenze coreografiche a favore di uno studio realmente dinamico e ordinato di tutto il materiale disponibile, scomposto e riassemblato. E si aprivano grandi possibilità, eppure ancora molta essenza.

Oggi c’è un’enorme disponibilità di informazioni a disposizione di chi vuole studiare il tango come danza, movimento. All’epoca dovevi  cercare, oggi è tutto lì. Ma forse si è persa l’essenza che ti dava la ricerca e il vedere tante possibilità diverse. L’essenza della tradizione e di una cultura. Oggi puoi diventare un bravo ballerino in relativamente poco tempo  ma c’è scarsa attenzione ai contenuti culturali del tango. All’aspetto relazionale anche. C’è poca essenza e molto marketing. E molto glamour. Quanto meno in Italia. Per glamour intendo il bisogno di gratificazione estetica e di immagine. Ma un’immagine un po’ falsata. Certo il glamour fa parte del tango, ma non ne costituisce l’essenza. Il glamour lo leggo come questo bisogno di identificazione sociale, come la seduzione superficiale. Essendo il mio lavoro e vivendo del tango, dovrei essere felice del fatto che sia di moda e che ci sia bisogno di occuparsi di marketing. Ma non posso fare a meno di notare invece anche l’inevitabile impoverimento che noto attorno al tango. A volte sembra che l’unico grande assente in alcuni eventi di tango sia proprio il tango stesso. Sembra più un marchio che una forma immateriale di cultura e un mezzo sofisticato per entrare in relazione.

Il tango in verità è  praticamente un laboratorio di relazione maschile-femminile in senso ampio. Energetico, intellettuale, creativo.

La mia personale evoluzione artistica e pedagogica adesso va in direzione della cura e trasmissione dell’aspetto relazionale, anche nel suo aspetto terapeutico e quasi sciamanico. Mi avvalgo del mio ricercare anche in altri ambiti come la danza-terapia.  E nell’aspetto squisitamente artistico – performativo, nel trascendere la rappresentazione del tango in quanto genere, che per me rappresenta un approccio “folcloristico” al tango, per utilizzarlo, invece, come linguaggio. La potenza del tango è nella sua essenza, è vero. Ma se trattata con rispetto, questa peculiare forma artistica popolare può raccontare molto più che la mera rappresentazione di se stessa, proprio perché appartiene a un modo di sentire umano universale.

La penso anche io come te. Forse andare all’essenza del tango vuol dire, proprio, trascenderlo, superarlo non solo come forma codificata ma anche come territorio d’appartenenza, di dipendenza… se  si vuole. Naturalmente la cosa vale non solo per il tango ma per ogni forma d’espressione. Il fatto è che abbiamo tutti bisogno di “case” in cui chiuderci, ripararci, di prigioni perfino. Eppure esiste una porta, in noi o nella prigione poco importa, che, se varcata, può liberarci e restituirci ancora di più ciò che… abbandoniamo.

Ricordo una frase, letta durante l’adolescenza, forse di Herman Hesse, che diceva che per percorrere la tua strada… devi abbandonarla. Il difficile è farlo.

Ma torniamo al tango che è nato da un miscuglio di culture e oggi si sta diffondendo davvero in tutto il mondo. Sarà anche per questo, infatti, che non molto tempo fa è stato riconosciuto dall’Unesco come un “bene” patrimonio dell’Umanità.  Eppure, nonostante questa vitalità (che si registra anche nei vari stili di tango attualmente presenti e ballati) il tango appare un mondo piuttosto chiuso. È proprio questa chiusura che affascina le persone, questo suo essere un rituale, fatto di codici e comportamenti ripetitivi? Oppure è il suo famoso abbraccio ad intrigare, questo mistero che collega l’intimità all’estraneità, che raduna le pulsioni del corpo e della mente, facendole dialogare in un mondo dove tutto, invece, sembra frammentarsi e svilirsi?

Certamente la ritualità del tango affascina. Credo abbia a che fare col bisogno di ritualità in quanto “playground”, spazio di gioco per adulti, spazi di gioco “sul serio”. Il gioco serio o il “gioco divino” (lìla la parola sanscrita che indica gioco della creazione, piacere, godimento e amore).

Sicuramente sono andati persi spazi nei quali ri-conoscersi, comunicare in modo più profondo, luoghi protetti, di “sospensione” del quotidiano. Mettiamoci anche che la peculiare relazione tra i sessi è francamente in crisi, e che urge un bisogno di riequilibrio del maschile e femminile come principio in ognuno di noi e nella relazione col tutto. Per tutti questi motivi entrare in uno spazio extra-ordinario, con alcune regole del gioco fissate, regole diverse dal quotidiano, dove si sospende l’uso costante della parola e ci si permette di mettere in gioco il corpo nella relazione, sicuramente affascina chi vi entra la prima volta.

Ovviamente non si è al riparo delle insidie di sempre: il conformismo, inteso come rigidità della forma e  tensione dello sforzo di adeguarsi a modelli imposti o la volgarità della ricerca di piacere senza cedere niente di sé. O ancora l’arroganza della competitività. Ma di certo, avvicinarsi al tango, che sia per ballarlo o per suonarlo o per scriverlo, richiede sempre un extra di fatica. Non regala soddisfazioni a buon mercato, quasi mai.

L’abbraccio è sicuramente il “marchio di fabbrica” del tango. L’abbraccio è una frontiera, un laboratorio. E’ una situazione, un accordo, un compromesso costante, vivo, plastico. Impossibile che sia reale se lo si cerca dalla forma. Non inizia dalle braccia. Inizia dal petto, e quindi dallo spazio energetico del cuore. E a volte non basta. Perché se si abbraccia partendo dalla forma si abbraccia meccanicamente. Meccanico è tutto ciò che non rispetta un’intenzione sincera di entrare in relazione. Fosse anche con se stessi. Esiste il sesso meccanico, il gesto meccanico e anche ovviamente la danza meccanica. Meccanico è come dire: non connesso. Pornografico. La forma di un abbraccio senza  connessione può risultare orribilmente scomoda, perché ti espone al fatto che sei in una situazione bloccata e penosamente negata. Ora, non intendo dire che ci sia una franca intenzione di non entrare in relazione quando questo avviene…almeno non in modo cosciente. Nascondersi dietro alla forma e al “glamour”, che è pura forma, e la forma ha bellezza, non è certo un atto di cattiveria.  Ma occorre rompere la dolce geometria appresa della musa, come direbbe Lorca, per fare spazio al “duende”. Che ha il sapore della morte. E la morte è quel cedere qualcosa di sé per finire trasformati. Nel bene e nel male.  L’intimità è un po’ questo, in fondo. E la frontiera tra intimità ed estraneità passa da quella disponibilità alla trasformazione.  L’intimità è una possibilità, e non è detto che avvenga sempre e comunque, poiché occorre la “entrega”, la consegna di se stessi alla relazione. Occorre anche provare un senso di fiducia.

L’intimità tra due estranei è una frontiera molto interessante. A volte accadono incastri talmente perfetti che ci si chiede cosa sia dopotutto l’estraneità se non il puro caso di non essersi mai incontrati prima. Siamo estranei se non abbiamo mai parlato? O forse lo restiamo anche dopo esserci abbracciati meccanicamente senza cercarci? O forse abbiamo condiviso l’intimità di un incontro scomodo, e quindi ci siamo conosciuti, se ci permettiamo di rilevare anche il disincontro?

Questo contatto a metà tra testa e pancia che tuttavia chiede l’apertura del cuore, che ha sempre grandi resistenze, è la potenza sotterranea del tango.

Occorre anche sfatare un mito, quello della passione sessuale sempre e comunque.  Certo, a volte avviene una sintonia di pancia, e allora il tango è un preludio. A volte succede di testa, allora è un gioco sofisticato. Oppure di cuore… e allora è tenerezza. Oppure, di tutto, e allora è amore, forse solo sublimato. Inutile dire che vale anche per gli scambi di ruolo, nei tanghi tra persone dello stesso sesso anche eterosessuali…

Le sfumature sono tante come tante sono le persone. E tanti sono gli abbracci e gli incastri.
C’è poi questa questione affascinante del camminare insieme, dello scaricare il peso a volte all’unisono, a volte no, questa ricerca del ritmo comune, della transizione comune, dove ci si aspetta o si insegue, si regola il passo sull’altro, e si cerca di smussare gli angoli delle dissonanze di tempo e misura. E’ un dialogo molto sottile.

Le cose che dici sono molto interessanti. E anche se preferirei ballare con te più che parlare o ragionare, entrando nella comoda scomodità di un abbraccio, vorrei non rinunciare a “usare” la testa per esprimere alcune cose che mi hai fatto venire in mente.

Quando parli, infatti, di fiducia e di cuore contrapponendoli alla forma meccanica o pornografica io provo insieme un’intimità ed un’estraneità con questa visione.
La cosa è indubbiamente affascinante e si tratta di uno “stato” seducente, di una condizione ambigua che di per sé mi nutre senza aver bisogno di troppe analisi.  Ma provo a spiegarmi.

Aprire il cuore, come dici, connettersi, o meglio vivere la connessione, è una cosa bellissima e che può salvare la nostra umanità. La nostra vita.
Nello stesso tempo che cosa è che noi cerchiamo veramente… la fiducia o il coraggio?
Può esistere un coraggio senza la fiducia? E una fiducia senza coraggio?

Forse sì e, forse, questa questione è piuttosto importante.
Ovviamente nelle tue parole si avverte, e tu lo indichi con nettezza, quanto sia importante la ricerca. Ballare (e specialmente l’abbraccio) è un atto di ricerca, che necessità, per questo, fondamentalmente di un inizio. Di un abbandono ad un inizio. Il resto è, appunto, ricerca che comporta un’apertura, un ascolto possibilmente costanti.
Ma può esserci  un’apertura se dall’altra parte c’è una chiusura?
Può esserci un cuore aperto e uno chiuso? O i cuori si aprono sempre insieme?

E’ difficile rispondere ma quello che vorrei anche provare a dire è che esiste una sensualità, un abbraccio romantico, basato su un sentire che spesso è distorto nella misura in cui è dipendente da un bisogno, e un amore o una sensualità più liberi perfino da loro stessi.

Le persone cercano la pornografia, la forma, forse per molte ragioni, per molte sfumature, come scrivi… Per pigrizia, disabitudine, ignoranza di sé, prima ancora che dell’altro, o per tutta una serie di blocchi che affondano nell’aria che viviamo, ma la cercano anche come una liberazione da qualcosa. Delle volte mi chiedo se questo qualcosa non è, magari, proprio la fiducia. L’ansia di fiducia.
Dunque, se questa liberazione non è proprio da… se stessi.

Se fosse così, la pornografia metterebbe in campo quell’autodistruzione necessaria all’uomo.
Non solo o non tanto perché l’uomo non si ama o è fondamentalmente masochista ma perché nella ripetizione (della forma) si riconnette con una forza sovrumana che lo trascende.
La danza, del resto, è un’energia individuale che si scioglie… che anela con tutta se stessa allo scioglimento nell’aria. La danza è un atto suicida. Ovviamente nel suo senso più fertile.
Quindi, dietro alla pornografia, al bisogno di solo forma, c’è, o ci potrebbe essere, tutta la pochezza dell’umanità e insieme tutta la sua straordinaria volontà. Che è, insieme, disperazione e reazione.

Tu dici che… “occorre rompere la dolce geometria appresa della musa, come direbbe Lorca, per fare spazio al “duende”. Che ha il sapore della morte. E la morte è quel cedere qualcosa di sé per finire trasformati. Nel bene e nel male.”

Ma se il duende fosse uno spazio sentimentale che necessita proprio dell’estraneità, del coraggio, del conflitto, per ritrovare l’intimità? Per esprimere la sua potenza?
Insomma se al cuore arrivassimo dopo una lunga camminata, una lunga battaglia proprio contro il cuore? Se la forma fosse l’arma con cui poter sentire la vanità della nostra vita e dunque la necessità della morte o del morire, per ritornare a vivere?

Forse si spiegherebbe tutta questa dipendenza dalla pornografia… E forse la pornografia e la forma diventerebbero dei tramiti e non dei fini. La consapevolezza, infatti, può nutrire l’abbandono…

Facciamo una pausa. Abbiamo accumulato un’intensità certamente non ordinaria, almeno per queste pagine virtuali dove finiscono le nostre parole.

Non lo dico per vanagloria ma perché mi sembra che il solo farsi delle domande non sia proprio la prima attività della nostra epoca.
Per questo lasciamo al silenzio il compito di correggerci o spostarci e poi torneremo la prossima settimana con la continuazione di questo viaggio nel tango, insieme a te.
Tra il maschile e il femminile (di cui parleremo più a fondo) e tra un tango ed un altro, intanto resta sempre il nodo alla gola…

Paolo De Falco

Under 35?

Da qualche tempo sembra che ci sia attenzione solo per i “giovani”. Tra bandi, concorsi e start up c’è però il rischio di creare un mondo parallelo senza confronti con il reale.

Under 35?

Da un po’ di tempo tutto sembra essere dedicato a chi non ha ancora compiuto i 35 anni.
Bandi provinciali, regionali, ministeriali e tra un po’ anche clericali sembrano riconoscere il diritto a lavorare e a partecipare, forse perfino ad esistere, solo dei cosiddetti giovani italiani!

È comprensibile questo senso di colpa delle istituzioni italiane o più in generale di un paese per vecchi che, improvvisamente, decide di prendersi cura e favorire i suoi giovani finora abbandonati.

Così, tutti questi bandi che sono spuntati come funghi, emigrando dal misterioso sottobosco alla strada asfaltata e apparentemente dritta,  registrano varie iniziative e opportunità che gli under 35 possono ora valutare e cogliere, immettendosi nel mondo del lavoro in modo da sviluppare i loro meravigliosi sogni e reali ambizioni.
Che poi queste opportunità siano spesso episodiche, ovvero rappresentino iniziative progettuali in alcuni casi piuttosto fumose, in altri alquanto fragili, che non servono ad instradare veramente le persone e soprattutto a metterle nelle reali condizioni di affrontare difficoltà e rischi, questo sembra interessare poco la coscienza istituzionale, tutta protesa più a comunicare che a modificare il reale paesaggio sociale.

Ovviamente questo può sembrare un ragionamento pregiudizievole contro qualsiasi azione politica o amministrativa, una considerazione che, quindi, non riesce proprio a riconoscere alcuno sforzo, alcun buon proposito al mondo del potere.
E invece la rivoluzione così comunicata, per esempio, da questo nuovo governo (o si potrebbe dire “partecipata”), ha bisogno, proprio delle nostre ultime risorse di fiducia per poter marciare dritta; o meglio del nostro tentativo di partecipare, appunto, al suo corso.
E quindi siamo in quel cul de sac per cui dobbiamo dare fiducia ai nostri stessi potenziali assassini, se non vogliamo eliminarci da soli.

Ma una cura che non contempli il tempo, la sua verità e potenza, può essere molto effimera.
I fatti, pur nella loro imperscrutabile vanità, ce lo hanno ampiamente dimostrato.
E questo perché il sistema, o gli uomini del sistema, hanno bisogno di tempo per potersi modificare, nonostante la liquidità della nostra società contemporanea possa illuderci del contrario dato che sembra farci vivere in una (apparente) velocità tanto spietata quanto interessante, in una costante accelerazione delle cose.

Velocità o lentezza sono, però, categorie relative, come qualcuno notò un giorno, e quindi tanto vale focalizzarsi su di noi più che sull’andatura della scena.
Sono uno che pensa che abbandonare il punto di vista umano a favore di quello, per esempio, dello spazio possa essere terapeutico per la nostra esistenza. L’antropocentrismo ci ha portato a distruggere il pianeta (e dunque noi stessi) e quindi assumere, se questo fosse mai possibile, la prospettiva delle “cose”, potrebbe essere, invece, un tentativo salutare.

Eppure, oggi, vorrei provare a spendere qualche parola in nostro favore, in favore dell’uomo.
Non è granché l’uomo, ormai lo sappiamo bene tutti, ma mi chiedo perché non proviamo a recuperarlo dal fondo di questa luce dove è finito? Perché, invece di usarlo senza più conoscerlo e dunque svilendone continuamente capacità e risorse,  non lo rimettiamo al centro di quella che chiamiamo esistenza?
Perché di fronte a questo luccichio effimero e ormai logoro non proviamo a vendere il David di Donatello a noi stessi prima di offrirlo ai marziani come dono o pegno per la loro ospitalità?
Perché non tentare di ricostruire una tentazione pari all’intensità della nostra storia,  un nuovo Umanesimo che sappia ancora illuderci con la sostanza, con un’ultima chanche di piacere profondo da vivere sull’orlo della sopravvivenza?

Ma, abbandonando i massimi sistemi, ritorniamo ora agli under 35.
Occuparsi della giovinezza, del resto, è un atto d’amore per l’umanità, un incitamento implicito al suo diritto di essere felice su questa terra.

Il tempo della selva scura sembra, dunque, essere finito, con l’avvento di questi bandi.
Dante avrebbe potuto vincere un buon bando se si fosse sperso in questi nostri anni e avrebbe potuto usufruire così di un esilio ben riconosciuto e rimborsato,  nel quale poter sviluppare tutto il suo progetto, concependo magari anche un quarto regno: quello dello start up perenne.
Non importa se sei bravo, buono o bello, se hai saputo amare Beatrice o Francesca, se sei finito nell’Inferno o nel Paradiso, con i bandi del terzo millennio sei finalmente giunto in un Purgatorio perenne, in un’oasi di pace che ti assolve per sempre, assolvendo, con te, anche se stessa, ovvero il Grande Inquisitore chiamato Trinità.

Ma questo Purgatorio non è solo una sospensione, un luogo di passaggio. Un luogo dove riflettere sull’ineluttabilità del nostro passato e sulle tentazioni del nostro futuro. Esso è piuttosto una vetrina straordinaria, uno schieramento senza fine del nostro valore potenziale, simile ad una parata militare che sfila nella città con le testa alta e le gambe dritte.

A Virgilio non resta che accompagnare con lo sguardo questi giovani guerrieri, guardandoli mentre stanno sul punto di partire, protesi con i muscoli sui blocchi di partenza, con i tendini levigati e freschi, che al confronto i bronzi di Riace sembrano solo degli adulti demodè, degli eroi stanchi e immobili.

D’altra parte il regno dello start up è il regno dell’adrenalina, dell’eccitazione, dell’infinità possibilità. Dell’innamoramento rapito. E, come si sa, chi è innamorato indossa degli occhiali speciali che fanno vedere la realtà un po’ diversa da quello che è.
Del resto che cos’è la realtà? Non è forse un territorio magico e romantico?

Giorni fa sono andato ad una riunione aperta promossa da un centro culturale. C’erano persone di tutte le età e la cosa, sinceramente, era bella.
Il tema era proporre dei progetti che rivitalizzassero la relazione tra questo centro culturale e il paese che lo attorniava.
Ho ascoltato a lungo in silenzio e ho visto finalmente un istinto metodologico all’opera. Alcune persone concepivano “fisiologicamente” degli atti strategici, immaginavano, cioè, un processo più che dei risultati.
Così, ho pensato che questa atmosfera, questa temperatura, derivava non solo dalla disperazione presente nel sociale, a vari livelli e gradi, (quando stiamo davvero in pericolo nasce negli umani, superato il momento del panico, una tensione strategica) ma proprio dal fatto che erano presenti, a concepire idee e azioni, persone di diversa generazione. Eravamo seduti in cerchio, gli uni  accanto agli altri e io per esempio avevo alla mia destra una ragazza di 17 anni e alla mia sinistra una di 35. Di fronte a me poi, come in uno specchio, due uomini over 50. Uno era molto silenzioso e sembrava guardare la scena insieme con grande diffidenza e curiosità. L’altro parlava con brillantezza, argomentando e ascoltando con vigore e acutezza.

Da parte mia, saranno state quelle lenti dell’innamoramento, l’eccitazione dello sturt up, ma mi sono messo a concepire prima nel silenzio e poi nella parola, che ho preso alla fine, un progetto unico, una sorta di alleanza totale tra tutti, che portasse, quindi, a realizzare un solo progetto, pur se fatto di azioni diverse in grado di restituire le idee e la personalità di ognuno.

Perché racconto questo?
In questi anni mi è capitato spesso di lavorare o di insegnare (che per me, per molti versi, è la stessa cosa) con persone più giovani di me, spesso under 35.
E raramente non ho avuto difficoltà, raramente il rapporto è stato non dico meraviglioso ma almeno privo di tensioni e difficoltà profonde.
Le ragioni di questo sono tante e complesse. Ovviamente rispecchiano anche la mia personalità e storia specifica ma credo di poter dire senza esagerare che se si entra in regioni di collaborazione non superficiali, vengono fuori delle questioni strutturali ampiamente diffuse.

In realtà, complice anche questa era dei bandi, i giovani non amano molto lavorare con i più grandi. Quando lo hanno fatto, spesso, sono stati sfruttati e diretti senza ascolto, senza un rispetto autentico.
E la sfiducia in sé che questo ha comportato, che è diventata anche apatia o conformismo, ha ovviamente nascosto una rabbia pronta ad esplodere in vari modi…
E poi un giovane si sa è tendenzialmente orgoglioso e presuntuoso.
Il fatto è che negli ultimi 30 anni le generazioni, a mio parere, hanno smesso di dialogare  veramente. Ovviamente nel dialogo ci metto anche quella pulsione reciproca ad uccidersi.
Non sono solo i figli a voler-dover uccidere i padri ma anche i padri a voler-dover uccidere i figli per continuare ad esprimersi o regnare sul campo.
Questa battaglia “naturale” è stata sostituita da una solitudine, da un nulla apparente che risolvesse la questione con una tregua tanto finta quanto improduttiva.

Ovviamente l’evoluzione tecnologica ha facilitato molto questa assenza di confronto, chiudendo le persone in una sfera di cristallo virtuale dove tutto perde di verità e consistenza.
La rivoluzione digitale, per esempio, ha generato nella produzione audiovisiva tanti giovani self-made men or women che si sono proposti su un mercato anche se questo mercato non c’era proprio. O quasi.
In tutti i casi pensando di esprimersi per il solo fatto di manovrare un apparato tecnologico. O di appartenere alla sua portata rivoluzionaria.
Senza dunque conoscersi e studiarsi, senza penetrare nel mistero del mondo.
Naturalmente la vita è sempre più forte di tutto e anche in questi corpi impermeabilizzati dalla “plastica” è entrata la sofferenza, le intermittenze della coscienza e dell’anima. La fatica profonda.
Forse, però, un self made man deve prima di tutto combattere con se stesso, sconfiggere se stesso.
E per far questo veramente deve immergersi nelle sue paure e desideri più profondi.
Deve affidarsi al tempo.

Ora, tutti questi bandi sembrano voler offrire tante possibilità ai giovani. Questo però potrebbe essere ancora più rischioso per loro se gli chiuderà la possibilità di un confronto con le altre generazioni. Al limite potrebbe accadere che saranno loro ad “usare” i più grandi (o i più piccoli) senza entrarci veramente in contatto. Senza capirli e combatterli in una battaglia sul campo.

Insomma,  quello che voglio dire è che, se invece di creare queste barriere pensassimo a creare uno scenario di confronto reale, forse il paesaggio si animerebbe in un modo più concreto. Vincere un bando o immergersi nel regno dello sturt up può essere un’opportunità importante (dove la straordinaria e misteriosa unicità di ognuno fatta di volontà e destino può svilupparsi senza confini),  ma può diventare anche un’illusione, un’opportunità ingannevole che poi si spegne nel momento in cui, soprattutto per quanto riguarda il paesaggio culturale,  i vincitori incontrano il cosiddetto mercato reale, con i suoi vizi strutturali molto profondi, con le sue ingiustizie, con le sue inconsistenze.

Non è meglio, dunque, lavorare sul sistema generale?

Nel dopoguerra la vitalità del nostro paese derivò da una mobilità sociale straordinaria: anche i figli dei contadini potevano studiare e diventare dei professionisti, degli imprenditori, se lo volevano; potevano, in altre parole, cominciare delle attività senza vincere bandi o avere i padri e i nonni che le finanziavano direttamente.  E questo portò, con altre contingenze, ad uno sviluppo economico reale e contagioso.

Perché allora non immaginiamo di sostituire la battaglia e l’incontro reale tra classi sociali con la battaglia e l’incontro reale tra generazioni?

Non è solo perché lo meritano quegli over 35 che negli ultimi 15-20 anni hanno molto spesso graffiato nel vuoto, siano i cinquantenni di oggi che si sono trovati a venire dopo la generazione che è stata giovane nel ’68 e negli anni settanta, più protette non solo dal benessere  economico ma anche dalle ideologie, o siano quei giovani che hanno appena superato la frontiera: quei quasi quarantenni o post quaranta che hanno sofferto di più di tutti, forse, il cambiamento epocale.
Ma lo meritano anche i trentenni di oggi a cui bisogna avere il coraggio di affidare non tanto il mondo degli affari ma la vita nella sua complessità e intensità.

Dante, nel mezzo del cammino di sua vita, ha dovuto non solo ritrovarsi in una selva oscura, ma ha dovuto-potuto attraversare e sentire l’anima di molte persone a cui la morte aveva dato non solo un posto ma un significato da interpretare e abbandonare.

Le frontiere sono una bella invenzione, una bella scossa di adrenalina, ma senza radice le frontiere servono a poco. Solo se riconosciamo di essere persone e non numeri, potremo partire con tutto noi stessi, prendendoci e portandoci in giro dove il tempo fa giri strani.
E delle volte ritorna al punto di partenza.

P.S.
Nel prossimo numero ricomincerò le mie conversazioni incontrando Samantha Di Paolo, una ballerina e insegnante di tango argentino, che ha da pochissimo superato la fatidica frontiera.
Chissà che non ci racconti dell’abbraccio col tempo…

Paolo De Falco

Il valzer del moscerino

Tutti, stimolati da La Grande Bellezza,vedono il disfacimento del nostro mondo. Ma dove stavano prima?

Il valzer del moscerino

Fin da quando siamo piccoli veniamo indirizzati a concepire il mondo, a comprenderlo, attraverso dei dualismi: maschio femmina, papà e mamma, assenza e presenza, prendere o lasciare.
Nel frattempo l’esperienza diretta delle cose, però, ci insegna che il mondo è un cerchio che gira, nel quale a volte prende più luce una cosa e poi, poco dopo, la prende un’altra.

Così, piano piano, si struttura in noi il senso della narrazione che è strettamente legato a quello dell’illusione. Chi mai potrà dire, infatti, di essere stato immune dal potere del girotondo?
Da quella caduta che ci fa fare a terra? Dalla sua meravigliosa illusione che ci fa sentire, anche se non siamo in grado di elaborare e dunque di riconoscere ciò che ci inietta, che non solo le cose ma perfino la luce è una specie di miraggio? Una specie di gioco?

I bambini non sono la nostra purezza o la nostra saggezza ma forse, semplicemente, sono il nostro girotondo aperto che si alza e cade a terra con una continuità naturale, con un ritmo elementare in cui tragedia e commedia si rincorrono specchiandosi, magari, in quel riflesso che si muove con noi.
Kantor, una volta, ha detto che ridere e piangere insieme, cosa che spesso accade ai bimbi, è l’atteggiamento più giusto che si possa avere di fronte all’esistenza.

Ma poi il mondo e i suoi drammi ci insabbiano riducendo la nostra naturale apertura. E il nostro bambino, col tempo, diventa così pesante e “bloccato” che per liberarsi non gli basteranno neanche tutti i suoi capricci, tutte le diavolerie che saprà inventare.

Questa premessa per parlare, forse, di conservatorismo e progressismo, di due atteggiamenti che sembrano condizionare le scelte e il carattere della nostra vita, ma che probabilmente e semplicemente non fanno che girarsi continuamente su se stessi, ballando insieme l’assurdo valzer  della vita. Il conservatorismo e il progressismo si ritrovano, infatti, come tutti sanno, non solo in politica o nell’etica ma in ogni aspetto del nostro esistere o del tentare di farlo dignitosamente.

Si può ovviamente considerare le cose da un punto di vista “biologico” e ammettere che entrambi gli atteggiamenti corrispondano a delle nostre necessità, appunto, fisiologiche; ma riconoscere che, anche intellettualmente, apparteniamo alla complessità e alla liquidità, è altra cosa.
Molti di noi, infatti, di fronte alle cose, si sentono più conservatori o progressisti, più attaccati allo status quo o devoti del cambiamento, senza lasciarsi sprofondare nelle e dalle sfumature.

Anni fa irruppe nella new wave musicale americana un gruppo che si chiamava Devo.
Esso cantava della devoluzione in atto e lo faceva con uno spirito così irriverente e brillante da metter in campo un’energia assolutamente non nostalgica. Tanto è vero che la loro musica era fortemente influenzata dall’elettronica, dal nuovo suono campionato ed elaborato e non riprendeva affatto il sound del vecchio blues. Il loro “blues” di fronte alla modernità, invece, si vestiva di plastica  e senza lamentarsi nell’aperta intimità, si srotolava in un up sbeffeggiante non solo il potente ed estroverso sogno americano ma tutti quei diktat dell’epoca consumistica che la fine degli anni settanta stava definitivamente schiudendo.
Non sono durati molto. Ma a me piacevano e quando ho letto che Bob Casale, membro fondatore del gruppo, è morto improvvisamente qualche giorno fa per arresto cardiaco, mi è dispiaciuto.

Perché parlo di loro? Perché la loro cover (I Can’t Get No)di Satisfacion dei Rolling Stones era davvero lancinante? Il grido beffardo di uomini insabbiati dal loro stesso robot interno? Il cortocircuito dei corpi che non solo non trovano più soddisfazione ma che risolvono la cosa soddisfacendosi con la stessa frustrazione?
Può essere. Il fatto è che quell’irriverenza e quell’energia mi mancano non solo perché allora mi facevano ballare veramente e contenevano le mie inquietudini adolescenziali, ma perché mi insegnavano, senza farlo, ad essere vivo di fronte alla morte. A tenere alto lo sguardo, indipendentemente dal tempo e dalle sue malattie.

In questi giorni si continua a parlare e scrivere tanto sulla grande bellezza.
Come sanno i lettori che seguono questa rubrica, in tempi non sospetti, ho dedicato diversi articoli a questo film e soprattutto ad alcuni temi che esso tocca. Conversando, per questo, anche con altre persone che potessero offrire un contributo interessante.

Nonostante sia del mestiere, non ho fatto, però, un’analisi reale del film (la sola cosa intelligente da fare oggi) ma ho cercato di riflettere sull’arte del potere e sul potere dell’arte. Chi vorrà potrà aprire l’archivio del mercato del vento e scovare vario materiale.

Ma che cosa intendo dire con analisi reale?  La migliore risposta sarebbe nel farla quest’analisi: solo quando la si fa, un’analisi diventa emotiva e misteriosa, intensa e destabilizzante. Un lavorio creativo che sa andare contro se stesso, usando il paesaggio analizzato come uno scivolo attraverso cui cadere nuovamente nella vita. Ma questa analisi presuppone la compresenza di me, del film e di altri. Dunque, parlarne teoricamente è cosa non buona e giusta. Soprattutto pensando al fatto che la parola analisi induce a pensare ad un’attività della sola razionalità.

Di fronte, però, a questa superficialità dilagante e onnivora, di fronte a questa presunzione tanto prevedibile e disarmante quanto eccitante fino alla consunzione, vorrei suggerire, comunque, più che di capire o di seguire una mia analisi,  di prendere questo film e di guardarlo con il telecomando del videoregistratore.
Vorrei suggerire di farla a pezzi quest’opera, aldilà del gossip e dell’invidia, e di scrutarla e farci scrutare da essa in un modo che ormai non facciamo più.
Di usare quindi la tecnica dei morsi tecnologici per ricostruire non tanto un senso o uno smarrimento, ma un atto di immersione semplicemente inusuale.
Non basta vedere un film al cinema nel buio della sala, senza interruzioni pubblicitarie o familiari, non basta pagare il biglietto per sentirsi ben disposti e inclini all’uso, non basta l’appartenenza antropologica o professionale al mondo dell’arte o del pensiero, non basta perfino la nostra intelligenza e cultura o la nostra inadeguatezza: quello che occorre per fare un atto utile a noi stessi, oggi, è sbranare un’opera che, si badi, potrebbe essere anche non artistica ma un semplice arnese tipo un tavolo di legno o una lampada dell’Ikea.
Bisogna fare tutto a pezzi! E poi provare a ricostruire o, se non ci si riesce, restare a vedere i pezzi che, lì per terra, impietosi ci osservano.

Del resto, che noi siamo affamati delle cose e di noi stessi, dunque potenziali cannibali e potenziali assassini, appare piuttosto chiaro soltanto guardandosi intorno.
Allora facciamola consapevolmente  e realmente questa “dilaniazione” e vediamo cosa accade.
L’indagatore dell’incubo non ce ne vorrà se gli rubiamo per un po’ il mestiere o la scena!

Dò diritto di critica solo ai macchinisti, diceva Carmelo Bene, uno dei più citati intellettuali italiani di questi tempi, di cui pochissimi conoscono, però, il lavorio quotidiano. Non tanto avendone visto i risultati ma entrando o solo immaginando la continua ricerca di un artista come lui.

Ma se l’ho citato non è per ricordare l’inutilità dei critici vacanzieri, che siano salottieri “deputati” o cittadini qualsiasi, ma per suggerire che il sociale ha bisogno di un vero privato. Di un coinvolgimento privato che appunto monta e smonta, suda e arranca.
Questo altro dualismo che vanamente separa il pubblico dal privato, non ci fa solo allontanare dalla responsabilità individuale (sostituita dall’egocentrismo più sfrenato) o ci rende impossibile ogni vero abbandono al simbolico o, ancora, ci limita nei gesti creativi, ma ci impedisce costantemente di riconoscere l’anima del modo, che pure, ogni giorno, pazientemente resta ad aspettarci fiduciosa.
Che cosa intendo per anima del mondo?
Preferirei non parlarne qui seduto sulla mia sedia. Faccio l’artista, il viaggiatore e lo spettatore per questo.
D’altra parte qualcuno potrebbe obiettare che il mondo non ha un’anima ma solo una pelle che cambia o resta uguale a secondo della luce.  Forse…
Ma guardare la luce non è già una possibilità straordinaria?
E l’anima non si nutre, semplicemente, dello straordinario? Dato che l’ordinario in realtà non esiste, o è solo, magari, un’incessante illusione?

Dunque, il privato e il pubblico.
Tutti ora, stimolati da questo film che assume e non esplora la decadenza, parlano e vedono il disfacimento del nostro mondo (italiano o non… poco importa).
E riconoscono, anche se magari preferiscono non farlo o sono costretti a questo, quel nulla generale e individuale, pubblico e privato, appunto, che ci ha inghiottito come un buco nero.
Ma dove stavano prima? Anzi dove stanno quando, in ogni momento della giornata, incontrano gli altri e il vuoto se li sbrana? Dove stanno quando, dovendo fissare un appuntamento con qualcuno, questi comincia a fare l’elenco di quello che deve fare in tutta la settimana, come se questo fosse piuttosto necessario… per prendere l’appuntamento con loro?
Dove stanno quando le persone dimostrano costantemente disinteresse e incapacità di ascoltare e piangono, parlano, ammiccano tutte in una maniera così simile? Immersi, paradossalmente, in una vanità che ferisce ancor più dell’invidia, della rabbia o della violenza?
Quante di queste persone, che ora vedono, tentano, durante la vita, di fermare la vita con il loro personale telecomando, per cercare di capire o di farsi capire, di non farsi sbranare dalla dilagante e conforme superficialità?

Mi si dirà: ma la vita non si può fermare! Noi siamo dentro di essa, sempre, e il blob possiamo solo concepirlo e ammirarlo! Possiamo vedere la grande bellezza che “attacca” questi momenti emblematici della nostra esistenza (emblematici perché ridicoli e liberatori) e goderne, sentendoci non solo rappresentati ma anche accettati. Il film di Sorrentino, infatti, non giudica e non accoglie. Semplicemente aderisce. Chi ci vede del moralismo o chi non ce lo vede, a mio parere, pensa troppo al film e poco a se stesso.

Comunque sia, ora, sarà il ricordo dei Devo e della soddisfazione che non riesco a trovare in questo film e nel solitario dibattito che ha generato, non solo intriso di dualismo (bello/brutto, morale/amorale, potente/vano) ma sempre così supponente e vanitoso (come i miei ragionamenti del resto), o sarà l’inverno che non molla ancora la sua presa, ma mi viene in mente, non so perché, Arancia Meccanica di Kubrik.
Mi viene in mente, cioè, l’eccitazione che ho provato quando la banda entrava nella casa dell’intellettuale e squassava il suo “privato”. Facendo a pezzi la notte, il giorno e il grande fallo che li ha generati.

Così, di fronte a degli articoli che ho letto in questi giorni, mi verrebbe di bussare alla porta di qualcuno e chiedergli di mettere Beethoven per farci due chiacchere.
Non sono violento e non userei calci e pugni, ma mi piacerebbe usare il corpo in una privatissima discussione sulla grande bellezza.

Non c’è nulla di più conservatore e progressista del corpo. Nel corpo c’è la tradizione e c’è l’infinita possibilità. Il corpo è memoria che si nutre di memoria e sa riconoscere che il tempo è una fisarmonica stonata, il cui suono va ascoltato con tutte e due le orecchie e tutte e due le mani.
Altrimenti diventa noioso.
Così mi farei una bella chiacchierata a più mani, con varie persone. Con il loro nome e cognome. Prendendo il tempo per le corna e salendoci sopra come solo i veri uomini sanno fare.
Perché l’unica grande bellezza resta la lotta che possiamo fare insieme e contro di noi.
Il resto è solo un valzer del moscerino senza più… moscerino!
Il resto è solo un capolavoro… senza di noi!

Paolo De Falco

 

Le cornacchie

Il panettiere suicida per una multa, Fellini e Pasolini s’incontrano nel silenzio d’una sera e nella speranza che gli errori ci insegnino che si possono trovare molte cose preziose nel silenzio. Che non è solitario.

Le cornacchie

Le cornacchie sono sempre solitarie in fondo. Forse femmine, forse vergini, forse transessuali troppo intelligenti o forse maschi abbandonati, se ne stanno in periferia, vagando sulle strade selvagge che scorrono ancora vicino a radure, alberi e sassi.
Guardandole, si potrebbe dire che esse non cercano né uccellini né uccellaci, né banditi né visioni. Ma che sanno aspettare con infinità eleganza. Con un silenzio, certo, affascinante.

Intanto gli anni passano. Oggi è il compleanno di un morto, domani di un vivo. Presto lo sarà anche di un fantasma che s’aggira alla ricerca di sé.
Il gioco è cominciato, del resto, da molti anni. Prima ci si nascondeva tra le stalle e i cespugli della dolce campagna. Si correva incontro alla sera, tra boschi e bagliori, con un candore e una mestizia che solo F. Kafka poteva raccontare così… sulla strada maestra.
Poi le stelle e la sera, le vigne e gli abbracci, non sono più bastati. L’ambiguità è venuta a prenderci  con una promessa così sospetta eppure così sicura di sé che ci ha portato lontano… nel vortice meccanico, dove le macchine già sfrecciavano, verso quella dolce vita che avevamo sempre desiderato.
Attraversando la giungla d’asfalto e poi il fumo dei locali, nei quali specchiare le deformità delle nostre anime, abbiamo creduto, allora, che fosse il tempo a corromperci.
Forse per questo le cornacchie ci hanno lasciato andare, senza preoccuparsi più di tanto.
Le cornacchie, in fondo, hanno molta saggezza e hanno capito che la resa era quello di cui avevamo bisogno.

Immaginiamo di essere in campagna. Di non essere qui davanti ai nostri schermi che ci imprigionano, ma di esserci sperduti oltre la città. In quel paesaggio muto che sembra avere confidenza solo con la luna e le belle stelle.

Immaginiamo di aver sentito improvvisamente la voglia irrefrenabile di lasciare la nostra casa e la città, di lasciare perfino l’immagine delle nostra casa  e della nostra città e di esserci diretti con calma e determinazione verso il mondo che sta sempre sotto il cielo.

Immaginiamo che ad averlo fatto, l’altra sera, sia stato anche il panettiere che portava il mio cognome il quale per una multa di 2.000 euro… Che, prima di aprire il suo commercio e di ritornare al suo lavoro, quest’uomo abbia sentito il dovere di andare a trovare un albero al quale una volta aveva appoggiato lo sguardo, seppur distrattamente.

E immaginiamo che, una volta uscito dal suo paese, egli abbia incontrato due uomini alla guida di un’auto sportiva, di quelle che sono facilmente inclini all’arte del sorpasso. Dico due alla guida perché proviamo anche ad immaginare che questa macchina abbia due volanti, uno a destra e uno a sinistra.
E immaginiamo ancora che, pur rinserrato in se stesso, e poco attento alla strada, l’uomo abbia guardato solo per un attimo i due nella macchina.

Una macchina che si ferma nel tramonto in aperta campagna e che carica un terzo passeggero, fa sempre pensare a qualcosa di sconveniente.
Ma ho trovato il modo di riparare a questo sospetto: dato che non c’è nulla di più rassicurante di un poeta morto, immaginiamo che al volante ci siano il sign. Fellini e il sign. Pasolini.

Anche lei va lontano?
La vocina del sign. Pasolini è rispettosa e piena di pudore e al panettiere basta un cenno del capo per rispondere di si.
Il sign Fellini, allora, accelera e riparte come se non ci fosse null’altro da dire e soprattutto null’altro da fare.
Così, in silenzio, i tre procedono per molto tempo, sfiorando centri abitati e capannoni fino ad arrivare sulle montagne dell’Appennino.

Immaginiamo che sia notte ora e che i tre siano scesi dalla macchina e camminino su un muretto di campagna casuale ed inutile, cresciuto per non riparare altro che qualche topo e serpe nelle stagioni meno propizie.
Immaginiamo che il panettiere sia in mezzo ai due poeti ma che non abbia nulla da dirgli.
La notte li ha liberati da qualsiasi dovere, da qualsiasi pressione. Da qualsiasi fiducia e protesta.
Pasolini, del resto, aveva deciso, ancora in vita, di smettere di scrivere in italiano come forma di protesta contro la classe media del suo paese. Aveva rinunciato alla sua lingua e alla sua nazionalità. E Fellini si era specchiato, vicino alla fine, nella luna calante dei suoi sogni, desideroso di non morire  senza aver vicino il suo cavallo, ma certo con poca voglia di gridarlo al mondo. Insomma di farlo come un indiano d’america innamorato solo delle praterie e di Manitù.

Dunque, essi procedono in un silenzio perfetto e credo che non ci resti di meglio che immaginare di lasciarli in quella perfezione, di allontanarci da loro senza chiedergli o rubargli nulla che non sia il silenzio.

– Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare,  mi ridà forza… vita?
Vi domando scusa dolcissime creature. Non avevo capito, non sapevo… com’è giusto accettarvi, amarvi e come è semplice.
Luisa mi sento come liberato, tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero.
Ah come vorrei sapermi spiegare… ma non so dire. Ecco… tutto ritorna come prima, tutto di nuovo confuso. Ma questa confusione sono io. Io come sono, non come vorrei essere e non mi fa più paura… dire la verità…. quello che non so, che cerco e che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna.  È una festa la vita. Viviamola insieme!… Non so dirti altro, Luisa, né a te né agli altri. Accettami così come sono, se puoi.
È l’unico modo per tentare di trovarci.

– Non so se quello che hai detto è giusto. Ma posso provare, se mi aiuti…

– Vigliacco!
– La mia principale qualità è quella di restare inalienabile.
– E allora inalienabile per inalienabile perché non vieni con noi a Berlino? A partecipare alla prima e forse unica marcia tedesca per la pace?
– Perché oggi, un giorno di agosto del ’67… non ho opinioni.
Ho tentato di averne e ho fatto di conseguenza il mio dovere. Così mi sono accorto che anche come rivoluzionario ero conformista.
– Ma il conformismo ti porta altre preoccupazioni, per esempio occuparti delle industrie di tuo padre.
– Si però in compenso mi protegge dal terrore..

Sbagliando s’insegna, disse Carmelo Bene una volta.
Fellini ha insegnato molto, anzi ha condizionato molto. Se avesse fatto 8 invece che otto e mezzo, oggi, forse, saremmo in una diversa confusione. In una diversa inalienabilità.
E Pasolini, dal canto suo, continua a sbagliare senza sosta perché un conservatore non può restare così attaccato al futuro.  Un reazionario non può profetizzare senza perdere il suo sogno.
Speriamo, allora, che gli errori della fine di un inverno del 2014 insegnino a noi tutti che, marcia o non marcia, possiamo ancora trovare molte cose preziose e originali nel silenzio.
Il silenzio, in fondo, non è solitario.
È più simile ad una macchina o un treno che va e da cui possiamo ancora vedere.
Morendo nell’estasi ancor prima che nello scontro. O, al limite, accorgendoci ancora che le cornacchie, lì dove sono, non sono né felici né tristi… per noi… ma solo tragicamente preoccupate per la diossina delle campagne che attraversano sempre. Beccando, per questo, con più prudenza e circospezione del passato e, speriamo, dell’infinito futuro.

P.S.
Che mostruosa presunzione credere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori! A dirlo è il critico che aspetta in macchinaGuidoSnaporaz prima del suo celebre monologo.

Paolo De Falco

Il sign. Vesuvio

Immaginiamo che domani il Vesuvio erutti, ma invece di sputare fuori le viscere della terra, cominci a risucchiare tutti gli italiani.

Il sign. Vesuvio

Che cos’è una canzone?
O meglio cosa può fare una canzone con noi?

Da poco tornato da una presentazione di un libro sul calcio, Zeman e Platone, tenuta in uno dei tanti palazzi marchesali del nostro paese che ci illudono di avere ancora una storia da difendere, accendo il televisore e ascolto Gino Paoli cantare vedrai di Tenco.
Così, mentre da poco abbiamo un nuovo governo, da poco la Juve “padrona” ha vinto ancora, da poco Platone e il severo boemo non si sono incontrati sulla strada della dialettica o della verità, per quella strana illusione che continua ad ingannare perfino gli esperti facendogli credere che etica ed estetica siano cose diverse, qualcuno canta intensamente, di fronte a milioni di persone accasciate sui divani, … che un giorno cambierà.

Il canto è un misto tra una preghiera, un’invocazione, una richiesta, un racconto, ma è soprattutto una resa alla musica. Chi canta, anche sotto la doccia, o in certi pomeriggi difficili, lo sa.
Eppure, abbiamo bisogno ancora di una canzone così forte?

Immaginiamo che domani il Vesuvio erutti, ma invece di sputare fuori le viscere della terra, cominci a risucchiare tutti gli italiani. Non solo i napoletani che hanno avuto la follia e la magia di credergli e di aspettarlo con una saggezza primitiva e oscena, ma tutti gli italiani che abitano questa penisola a forma di stivale baldanzoso.
Così, in poco tempo, come se dalla grande bocca fosse partito un sospiro immenso, un risucchio spaventoso (mio nonno, napoletano, avrebbe usato l’aggettivo mondiale) ecco che 60 milioni di persone si ritrovano ai pendii del monte col buco.
E lui se ne sta immobile, in attesa, osservando l’insolito spettacolo di tante persone tutte in fila, in mezzo alla campagna.

Immaginiamo che solo un leggero venticello muova le cose e i suoni e che per il resto tutto taccia.
Immaginiamo dunque questo silenzio.

Il silenzio è forse l’unica cosa che può sconfiggere l’immaginazione. Il silenzio se lo ascoltiamo, sa portarci qui dove ogni cosa sempre sta… nella sua infinita possibilità.

Durante la presentazione del libro stasera un vecchio signore, dopo un lungo silenzio, ha deciso di parlare. E ha ammesso che il calcio è come la vita, ha bisogno di coraggio e di ascolto, di pensiero e di azione, di allenatori e di spettatori veri.
Non è stato ciò che ha detto ma il suo tono, la sua ritrosia… che mi ha commosso. Altre volte ho sentito questo disarmante cuore, spesso nascosto nel corpo di anziani italiani, e ho percepito la loro stanchezza e speranza, la loro solitudine e desiderio. Il loro orgoglio nel vedere un giovane parlare bene l’italiano o il dialetto.
Ma la ripetizione, per quanto rara sia, non riesce ad attenuarmi l’intensità di questi momenti.
Così, immagino che ora sia lui a prendere per primo la parola e a rivolgersi al Vesuvio.

Ho letto distrattamente che Iosseliani, un regista che amo molto, ha chiesto ad una platea di italiani quanti avessero visto Miracolo a Milano. E che le mani che si sono alzate sono state meno di una decina. Da ora, allora, chiamerò il Vesuvio, il sign. Vesuvio Iosseliani.

Sign Vesuvio Iosselliani vorrei provare a dire qualcosa. SILENZIO

L’altra notte mi sono svegliato e non so perché, non l’ho mai fatto, ho preso una penna e ho scritto una frase. Mi sembrava che qualcuno stesse aspettando una risposta. SILENZIO

Mia moglie dormiva e sono tornato in camera da letto a guardarla. Sembrava stare da un’altra parte. Allora ho guardato fuori dalla finestra per vedere se tutto era lì. SILENZIO

Io non ricordo… cosa ho scritto. E purtroppo ora non posso leggerglielo perché la carta se l’è rubata il cane dal comodino dove l’avevo poggiata. Credo se la sia mangiata. Gli sono sempre piaciute le caramelle e ha pensato che era una carta da leccare. SILENZIO

Però, non so perché, penso che lei sappia cosa ho scritto.
E allora, le chiedo, può dirmelo per favore…?

Il vento sa quando è il momento di toccare le foglie. Ma 60 milioni di persone tutte attaccate come una muraglia non sono un ostacolo semplice da attraversare neanche per un maestrale di febbraio.
Così, quel piccolo albero sperduto e ironico, rimasto dentro al cerchio, accerchiato dalla bocca lassù e dalla muraglia più giù, non si muove di un millimetro e il silenzio non può che ingigantire il silenzio.

Forse ha bisogno che venga lassù? Vuole che venga più vicino?
SILENZIO

Non metterei una mano sul fuoco per questo governo… nessuno, del resto, può dire cosa accadrà nel futuro. Con queste parole il Presidente si è congedato inabissandosi nelle sue stanze.

Eppure il fuoco non è ancora uscito dal sign. Vesuvio Iosseliani.

Forse, questo sospiro non è neanche un avvertimento, una prova.
Forse… la convocazione è stata un incidente, un equivoco.
Il messaggio non c’è. E non c’è la morte. Di nessuno.

Certo, quello che il cane si è mangiato, però, non lo sapremo mai.
Perché le caramelle sono… mondiali.  E il mondo canta quando meno te lo aspetti.

Non so dire come e quando ma vedrai che cambierà
si, certo, anche il vento, un giorno,  cambierà.

Paolo De Falco

Senza titolo

Dadaismo, futurismo, semplice follia o le conseguenze del Natale?

Senza titolo

Io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io io

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Paolo De Falco

Il riflesso condizionato

Ipocrisia e cinismo per buttarsi in quella zona della vita dove la convenienza è più forte della verità.

Il riflesso condizionato

In questi giorni la grande bellezza è sbarcata in America, alla conquista di un Oscar o forse più…
E sempre in questi giorni è diventata notizia un vaffanculo di Servillo ad una giornalista che gli chiedeva cosa pensasse delle critiche negative che il film aveva ricevuto in Italia.

Le due cose hanno naturalmente generato tutta una serie di articoli e commenti che sembrano accendere febbrilmente un pubblico dibattito.
La questione primaria, per molti, sembra essere che i detrattori del film in questione parlino sostanzialmente animati dall’invidia o dalla nota incapacità italiana di amare il proprio talento, di riconoscere e apprezzare i propri figli o fratelli che dir si voglia.

Sembra, dunque, che non possa esserci un sereno diritto e dovere di critica, un naturale dibattito capace di svolgere, aldilà dei giudizi specifici e tecnici (più o meno competenti) sul film in questione, una riflessione generale sullo stato dell’arte in Italia (o su questo pianeta), sul ruolo degli intellettuali e sulle dinamiche che li impigliano, sul loro rapporto con il potere e la realtà (ammesso che la realtà sia una e non nessuna o centomila), sulla condizione della bellezza.
Tenendo conto che questo film si presta bene, per varie ragioni, a questa riflessione più generale che, appunto, lo trascende.

Insomma il famoso nemo profeta in patria rincorre di bocca in bocca, di penna in penna, tutto proteso a confermare quell’idea che tutti abbiamo di questo nostro vizietto, di questa nostra singolare abilità che potrebbe essere considerata, certo, come il primo sport nazionale.

Del resto anche il vaffanculo di Servillo, liberatorio e definitivo, sembra, mentre divide la pubblica opinione, confermare quel dualismo nel quale sempre più spesso cade il “discorso” italiano: o con me o contro di me. O sono io fascista che non accetto alcuna critica e perfino dubbio sul mio successo, o sei tu una cretina che si tira la risposta con la tua aggressività e inopportunità.
Sembra non possano esserci altre sfumature che il rosso e il bianco, pardon, il nero e il rosso.

Eppure, proprio Sorrentino ha parlato (e scritto) spesso dell’importanza e della bellezza delle sfumature, della noia della rigidità. E lo stesso Servillo ha proclamato pubblicamente la sua distanza dal vaffanculo grillesco, il suo interesse per l’approfondimento, per la serietà e complessità delle questioni.
Naturalmente non si può parlare di approfondimento di fronte alla domanda sbrigativa di una giornalista che rincorre la tensione, il caso, lo scoop e per questo… lo crea!
Con la complicità della grande emotività che regna nell’aria contemporanea.
Né ci si può meravigliare dell’inopportunità e del cinismo della sua domanda: questa e la stampa bellezza! Avrebbe detto qualcuno.
Ma in questa situazione sembra esserci una confusione emblematica, che coinvolge sia la rigidità degli italiani che la loro mollezza, sia il distacco di Sorrentino (amaro e ironico come un buon lucano), sia la virilità di Servillo che a furia di interpretare guappi, politici, commissari e viveur sembra aver perso la sua umanità dietro le maschere.

Si potrà, con semplicità e pragmatismo, obiettare che l’eccitazione del successo può giustificare tutto. Che non è questo il momento di approfondire, ma solo di gioire per un “prodotto” italiano che conquista il mondo. Specialmente considerando che, questo successo, è un successo generale poiché si riverbererà positivamente su tutto il sistema del cinema italiano. Anzi su tutta l’Italia!
Molti commentatori infatti sono così convinti di questo, del loro sano pragmatismo, che difenderebbero gli autori incoronati anche se scoprissero che il film è brutto, che i loro autori lo hanno realizzato con soldi pubblici levati ai meno noti, ai meno “maturi”, ai meno “sicuri”, ai meno protetti. Il loro privilegio servirà a tutti e dunque è inutile ora lamentarsi e problematizzare: basta aspettare fiduciosi e far sentire la nostra grande riconoscenza e tutto si aggiusterà…

Tempo fa ho dedicato un paio di articoli di questa rubrica ai temi sopra esposti, partendo dal film di Sorrentino. Aldilà di una “critica” (preferisco dire lettura) specifica del film, ho proposto a un sociologo e ad un giovane regista una riflessione che, appunto, partisse da La grande bellezza e si smarrisse o tentasse di orientarsi, a secondo della prospettiva, nel potere dell’arte o nell’arte del potere.
Non è detto, infatti, che la riflessione, il pensiero, debba essere un’attività utile a se stessa, debba generare non dico una coerenza ma una linearità o una convenienza fisiologica.
Siamo forse abituati al fatto che i soldi debbano creare altri soldi, che la violenza genera ulteriore violenza, che perfino l’amore debba produrre nuovo amore, che ci sembra naturale considerare che il pensiero nutra se stesso. In realtà il pensiero serve di più al depensamento, ambisce e sfocia, quando è autentico, nel silenzio interiore della coscienza che è l’anticamera dell’impensabile, che, a sua volta, è l’ingresso dell’ignoto.
Forse esagero un po’, ma certo il pensare o lo scrivere (che può aiutarci a farlo), non è solo un’attività propagandistica. Un’azione comunicativa. La paragonerei di più ad una spinta che un corpo adulto può dare a quello di un bambino seduto sull’altalena. Oppure al lento scivolare dello sciatore immerso nella neve alta, che nasconde, sotto di sé, altra neve più… bassa.
Insomma pensare è un’attività dello spazio, se fatta seriamente. E come tale avrebbe bisogno del tempo, da secoli suo inseparabile alleato e carnefice.

Dunque i due articoli citati, che potete trovare nell’archivio della rubrica con i titoli: la tradizione è il corpo e la responsabilità dello sguardo, ingenuamente non solo interrogavano e dialogavano con due altri corpi diversi dai miei, ma proponevano una partecipazione-commento ai lettori in senso lato. Il silenzio che ne è scaturito deve essere stato il giusto compenso per tale ingenuità. Oppure il tempo complicherà le cose…

Non andrò ora a radunare o riassumere i tratti salienti di quei tentativi, ma se sono ritornato su la grande bellezza è perché, come dimostrano le reazioni di questi giorni (comprese quelle degli stranieri che lo hanno eletto nella cinquina dei grandi film) esso ha la forza di portare a galla nodi talmente strategici per la nostra possibile o impossibile felicità, che ignorarne la portata sarebbe, questo si, un atto arrogante e inutilmente snob. Che avrebbe, questo si, una conseguenza nefasta sul paesaggio che bene o male attraversiamo e che ci attraversa.

Quali sono questi nodi? Proverò a riassumerli con brevità, che la sintesi non è solo una gran bella virtù ma una necessità opportuna se non si vuole essere censurati ancor prima di essere letti.
Prima di tutto vorrei parlare della finta modestia così presente e potente nel sistema Italia.
Essa, a mio parere, ha molto a che fare con l’ipocrisia da una parte e con il cinismo dall’altra.
Provo a spiegarmi:  mostrarsi o proclamarsi modesti, per chi ha un qualsiasi grado di successo, è una strategia apparentemente vincente.
Non solo perché alza il livello degli altri, dei nostri “ascoltatori” i quali vengono assunti idealmente come nostri pari o superiori, facendoci risultare, in questo modo, rassicuranti e leggeri (dunque “confermabili”) , ma perché, se evito di ergermi a “maestro”, ad esperto, posso convincere gli altri che la vita è un sogno e non una fatica. Un sogno che tutti possono raggiungere, in qualsiasi momento. Perché il terreno è libero, non ha bisogno di regole, di limiti. Non si ha bisogno di affinare alcuno strumento.

La mia “esperienza” o “competenza”, il mio privilegio, la mia “diversità”, devono nascondersi, però, paradossalmente, dietro l’arroganza del potere. Che tanto piace e seduce, in specie gli italiani.
Quindi io sono, potenzialmente, come voi, ma, essendo arrivato qui, in una “posizione”  di successo, allora posso (che questo voi lo volete e lo accettate) alzare la voce e affermare con aggressività il mio piglio, il mio diritto. La mia opinione. Salvo, appunto, stare molto attento a non fare o addirittura dire che sono un maestro.
Tutto si può accettare in questo mondo ma non i maestrini, non l’atteggiamento didattico.
Essi non sono solo antipatici ma completamente inutili in un mondo che ha faticosamente conquistato la libertà, la leggerezza dell’io e delle cose.
Allora si all’aggressività (giustificata come carattere e sicurezza di sé) no alla presunzione di chi vuole insegnare.

Ho parlato di ipocrisia e di cinismo: riguardo la prima mi sembra di non dover aggiungere molto, della seconda mi spingo a dire che molte persone adottano questa modestia (finta perché in realtà nasconde un disinteresse ad imparare) consapevoli dell’utilità sociale di questa “posizione”, non tanto della sua “saggezza”. O, diciamo, che lo fanno più o meno istintivamente (che il conformismo agisce come un’attrazione fatale)  buttandosi in quella zona della vita dove la convenienza (momentanea) è più forte della verità.
Questo buttarsi è un misto di vigliaccheria e di cinismo, appunto, confuso con il pragmatismo o con il realismo, e diventa in breve così sterile da assomigliare ad uno straccio che non potrà più lavare o pulire (o cancellare) niente, data la sua sporcizia, data, soprattutto, la sua riluttanza a farsi lavare perfino dalla… pioggia.
Uno straccio orgoglioso di essere intriso, macchiato dal mondo, che assolve quindi la sua funzione una volta per tutte, attraverso un’inclinazione fatale che gli leva il potere reale e gli consegna quello illusorio, così più seducente perché mondano.
Del resto, aggiungo, essere consapevoli del proprio valore (l’autostima) è cosa diversa dalla presunzione, dalla mancanza della voglia di imparare. Dall’umiltà di riconoscersi manchevoli…
Umiltà che ci consegna, invece, alla legge dello spazio-tempo oltremondano e ipermondano.
(Pare che nell’oltremondo, comunque, ci sia anche il nostro mondo che gira e nell’ipermondano ci sia la “terra” che insegna.)

È evidente che queste mie considerazioni non possono non portare alla seconda questione di cui mi preme parlare. Ovvero il moralismo. Il grande equivoco.
Spesso si sente parlare, accusare qualcuno di essere moralista come se questo fosse una iattura, una malattia contagiosa. Ma cos’è il moralismo?
Lasciamo perdere i filosofi, lasciamo Kant e Fichte ai loro scaffali, lasciamo da parte la storia del pensiero o delle dottrine e vediamo cosa s’intende per moralismo nel senso comune:
Da Wikipedia:
“Nel senso comune moralismo viene inteso spregiativamente come una degenerazione della morale usata con eccessiva intransigenza per una severa, talora ipocrita, condanna degli altri”.

Del resto anche il film di Sorrentino o l’attuale film di Virzì sono accusati di moralismo e in generale il moralismo (quando non è ipocrita) presuppone che io mi “consideri” superiore a te, almeno nelle questioni morali. Quali siano queste questioni forse non ha molta importanza.
Tanto meno andare a verificare se effettivamente io lo sia.
Voglio dire che per gli allergici al moralismo non ha importanza approfondire, specificare: quello che è insopportabile è questa presunta superiorità o diversità. E tanto basta a tagliare corto.
Chi sei tu per giudicarmi? Sei forse diverso?  Quante volte nei film (ricordo proprio Servillo in Gomorra gridare queste parole al suo giovane assistente che ha deciso di scendere dalla macchina) o nella vita abbiamo “sentito” questa obiezione. Dico sentito perché molto spesso queste ironiche domande non si fanno esplicitamente… non c’è ne bisogno.
La questione, allora, è: che cos’è il giudizio?
Può esistere un giudizio non definitivo (aldilà degli iter “mostruosi” della nostra magistratura terrena) e uno “marchiante”? E’ possibile veramente riuscire a non giudicare niente e nessuno?
Ed è proficua questa rinuncia o sospensione?

Chi ama la vita vede, sente, tutto come un fiume che scorre.
In questo senso di fronte alle azioni come ai sentimenti, si collega più facilmente con il loro passato e il loro futuro.
Se tua hai ucciso, dunque, io che amo la vita, forse, penserò al perché lo hai fatto e a come questo ti cambierà. Ma se non la amo, questa vita tremenda e meravigliosa, ecco che, forse, resterò attaccato solo a quello che sembra essere il presente della tua azione.

Noi tutti, non solo perché siamo degli esseri razionali, di fronte alle cose, quale sia la loro natura, siamo predisposti (direbbe Shakespeare) ad operare (creare) una valutazione.
È proprio attraverso questa nostra funzione che diventiamo individui, in grado di scegliere e agire. Ma le cose sono, certo, più complicate.
Per valutare dovremmo avere degli strumenti raffinati e sensibili e questi derivano dall’educazione che abbiamo ricevuto e che ci diamo ogni giorno. L’educazione, la formazione non finisce mai… come si sa.
Per valutare dovremmo avere tanti elementi e dunque dovremmo dedicare tempo ed energia all’indagine. Forse perfino all’esplorazione.

Insomma, con questo mio tono pseudo-scientifico didatticoso, sto cercando di suggerire che riflettere ancora su cosa sia il giudizio e su come si possa giudicare, magari potrebbe esserci utile, nonostante “l’esperienza”  della nostra umanità.
Pare che qualcuno un giorno abbia notato che si rimane giovani quando ci si meraviglia sempre dell’acqua calda, del fatto che una mela cade a terra, del potere che ha su di noi il pianto che riusciamo ad emettere.

Ma torniamo al moralismo. Se esso nasconde un diverso amore per la vita, nasconderà anche un diverso amore per i nostri simili.
A mio parere la questione è essenziale, oggi come oggi.
Posso essere un grande artista, un grande politico, un grande idraulico se odio l’umanità?
O se la amo con tali riserve e dubbi? O se la odio con “saggezza”, con una “sana sdrammatizzazione”, con una capacità di accettazione più formale che reale, che rimuove il mio impulso e lo nega o lo ridimensiona per renderlo sopportabile a me e agli altri?

Ognuno di noi dovrebbe partire dal fare questa domanda prima di tutto a sé stesso. Abbiamo diritto di farcela e di ascoltare qualsiasi risposta. L’umanità ha fatto talmente tanti errori e gli umani sono talmente difettosi che chiederci quale fiducia ancora gli riserviamo dovrebbe essere un atto naturale e doveroso. Inconsciamente tutti “consideriamo” la faccenda. Ma farlo consapevolmente è un’altra cosa.

Mi sono dilungato eccessivamente. E forse andato fuori tema rispetto al pubblico dibattito su la grande bellezza.
Forse, più prosaicamente, essendo un regista e avendo esperienza dell’ambiente, avrei dovuto dire perché, a mio parere, questa vittoria di Sorrentino e Servillo (il gatto e la volpe?) non si riverbererà positivamente su tutto il sistema italiano, dunque anche su di me.
Avrei dovuto raccontare fatti, indicare cifre, analizzare tendenze, insomma avrei dovuto occuparmi non tanto dei grandi sistemi ma di questioni pratiche e dunque “reali”.
E, in quanto tali, modificabili. Non dell’uomo che ha già dimostrato ampiamente la sua incapacità di cambiare.
Forse.
Ma il perché ho parlato di queste questioni, a proposito de la grande bellezza, lascio al lettore il compito di decifrarlo o ignorarlo. Non si può fare tutto a questo mondo. Bisognerà accettare i propri limiti, un giorno. Altrimenti la bellezza non potrà soggiogarci. Non potrà risucchiarci nel nostro compito e nella nostra resa.  Quale essa sia.

Paolo De Falco

 

La coscienza del corpo

L’evoluzione della danza contemporanea dagli anni 80 all’equivoco dei finanziamenti per l’uso delle nuove tecnologie.

La coscienza del corpo

Come annunciato, riprendiamo oggi il discorso con Silvana Barbarini, danzatrice-coreografa ed organizzatrice culturale. La scorsa settimana ci eravamo lasciati con l’idea di parlare un po’ di quello che è stato il panorama della danza contemporanea italiana negli anni ‘80.  E di come esso si sia modificato con lo scorrere degli anni e soprattutto con questo nuovo millennio.

Fino agli anni ottanta, infatti, l’Italia è stato un paese molto vitale culturalmente e anche se magari qualcuno non sarà d’accordo con l’idea di un progressivo degrado di questo paesaggio, ti chiedo di raccontami della tua formazione e del clima che c’era in quel periodo e poi negli ultimi anni del novecento. Insomma di come hai visto cambiare le cose fino ad oggi… E se anche tu, come me, pensi che sia avvenuto questo degrado culturale, se pensi che la responsabilità di ciò sia solo della classe politica…

C’era qualcosa di organico e di semplice. Un entusiasmo gigante. C’era anche un darsi una mano. Abbiamo sempre trovato il modo di realizzare i nostri progetti.
Una volta era il Lavatoio di Bianca Menna, una volta lo Ials di notte, una volta il Cid nelle ore buche, il mese al Malafronte che spettava a tutte le compagnie nell’elenco o il Vascello d’estate in cambio di qualche collaborazione. Quando non c’era un posto, allora andava bene anche lavorare per la strada. Dietro Castel S. Angelo c’era un viale con l’asfalto liscio, senza le macchine. Poi si prendeva il treno e si andava a vedere Bejart a Milano, Pina Bausch a Venezia, Nikolais a Firenze. Si mangiava un panino e si tornava la notte per non pagare l’albergo. Nel 1981 a Milano ho visto anche Douglas Dunn. E sono andata nei camerini a parlare con i danzatori e a chiedere dove avrei potuto abitare se volevo passare un anno a New York. E alla fine ho preso il posto di Susan Blankensop in un loft low cost di Chambers Street. Si, perché all’inizio degli anni ’80 si partiva per gli Stati Uniti, con in mano il libro di Leonetta Bentivoglio, e si approdava all’isola di Manhattan, dove gli studi di tutti gli artisti che avevano fatto la storia del ‘900 erano lì a portata di mano, a distanza di qualche strada. Così la mattina andavi da Nikolais, il pomeriggio da Cunningham, ogni tanto mettevi il naso altrove e la sera andavi a teatro. Il weekend facevi i compiti e il lunedi mattina ti presentavi davanti a Murray Louis con la tua composizione. Ogni settimana un tema diverso e anche durante il training tecnico (sempre uguale nella successione degli esercizi) spostavi la coscienza su quel tema: il tempo, lo spazio lontano, lo spazio vicino, le articolazioni… astrarre dalla realtà in termini di tempo, spazio, forma, energia..

Sono tornata dagli Stati Uniti con una grande voglia di lavorare e per vent’anni mi sono lanciata in avventure produttive, da sola e con altri.
A Roma negli anni ’80 danza contemporanea e teatro sperimentale si scambiavano idee e interpreti. La Zattera di Babele di Carlo Quartucci è stata un vero luogo d’incontro. Per esempio è lì che ho conosciuto Luigi Cinque e Massimo Cohen con cui dopo ho collaborato moltissimo. Il Censimento del Beat ’72 è servito a contarsi, senza la patina triste delle piattaforme o quella stucchevole del marketing.
Era nella logica delle cose che le istituzioni sostenessero gli artisti. Le risorse sono sempre state molto scarse, ma le opportunità erano più chiare. Sapevi dove andare e cosa fare.
I Festival dedicati alla sperimentazione erano pochi, ma c’erano.  Nessuno chiedeva di dimostrare dei numeri, però di fatto ci andava tantissima gente. Penso a Polverigi, Sant’Arcangelo, Castiglioncello, Comacchio, Rovereto, Paola Leoni in Sardegna, e le varie rassegne di Nuovi Movimenti a Napoli, Catania, SettimoTorinese… ho visto recentemente un servizio fatto da Nico Garrone per Rai Tre sull’edizione 1987 del Festival di Polverigi. Entusiasmante!  ti veniva voglia di essere lì.

A Roma, se volevi presentare un nuovo lavoro, ti mettevi d’accordo con un teatro. Si andava a incasso 70/30. Mettevi 100 locandine nel quartiere, portavi il comunicato stampa a tutti i giornali e il teatro si riempiva. I primi due giorni invitavi la stampa e gli amici. Il terzo giorno uscivano recensioni di mezza pagina su Repubblica, Corriere della Sera, il Messaggero, il Tempo, l’Avanti, l’Unità, il Manifesto… e arrivava il pubblico pagante.  Avevi una bellissima rassegna stampa per promuovere il lavoro e quando si creava il passaparola giusto venivano a vederti organizzatori, registi, artisti visivi. Questo succedeva un po’ in tutte le città. Nascevano proposte di lavoro.
Si mettevano in moto altri progetti. E nel corso dei progetti nascevano nuove collaborazioni.  A Parma è venuto a vederci Enrico Maghenzani e ci ha chiamati per collaborare alla creazione di Genesi di Franco Battiato. In quell’occasione abbiamo imparato a girare, siamo diventati dervisci. E’ stato un bell’incontro con i valori della cultura musulmana. Queste esperienze lasciavano un segno.

Spesso si è creata l’occasione di lavorare in altri paesi, anche se non esistevano ancora i progetti europei. Col Centro Sperimentale del Teatro siamo stati a Istanbul per una creazione, con il Teatroinaria a Lisbona, con l’Aiace Multirifrazione di Luigi Cinque in Senegal, con la Zattera di Babele a Vienna e in Olanda. Con l’Autunno Musicale abbiamo portato la nostra ricerca sul futurismo a Francoforte, a Praga e a New York.

Poi è cambiato qualcosa. Da una parte l’Italia è rimasta indietro come capacità di progettare. Dall’altra parte la danza in Italia si è trovata isolata, senza strutture di riferimento.
Tutto quel mondo che aveva affiancato i coreografi degli anni ’80 si è dissolto. A un certo punto il Teatro Sperimentale ha perso interesse per il movimento, è tornato alla parola. La musica ha ricominciato a viaggiare da sola.
E ora gli organizzatori appassionati di un tempo non ci sono più: penso a Roberto Cimetta, a Giuseppe Bartolucci.  Sono arrivati gli Enti di Promozione… i bandi… il web…
Anche le mezze pagine su Repubblica non ci sono più. E le istituzioni hanno stretto la cinghia in maniera indiscriminata, senza considerare che era invece il momento di sostenere alcuni settori in grado di creare un ponte tra l’Italia e l’Europa.

Non è un bello scenario per chi torna adesso in Italia dall’estero. Una persona come Giovanna Velardi nel passaggio da Marsiglia a Palermo credo abbia dovuto ricominciare daccapo… e la sua battaglia convinta per le risorse ai progetti, per l’inquadramento sociale del danzatore, non sono andate lontano…
Mi chiedi se la responsabilità sia solo della classe politica… naturalmente no. Diciamo che, se la classe politica avesse uno straccio di progetto sulle questioni della cultura, questo aiuterebbe…
Anche il fatto di chiedere continuamente dei numeri per saggiare le capacità degli operatori, non depone a favore di una visione illuminata…
Ma poi c’è tutto il resto che non ha retto l’impatto con i nuovi media, o meglio con l’omologazione e l’inerzia che derivano da un consumo eccessivo di prodotti virtuali…
Forse tra un po’ non si andrà più nemmeno a scuola. Si passerà la vita su facebook.. incollati all’i phone.. anche i danzatori potranno imparare direttamente a casa le coreografie di Forsythe..
Non so perché ci sia questa attrazione a imbuto verso il web. Da una parte accelera la comunicazione, l’accesso ai dati.. ma dall’altra è la morte della relazione.
Nel secolo scorso si credeva nei viaggi, nei maestri, nell’esperienza diretta e prolungata nel tempo. Poi qualcuno non tornava nemmeno più.  Metteva radici nel paese dove c’era uno spazio per la sua ricerca. Penso a Paco Decina, Enrico Tedde, Francesco Scavetta.
Negli anni ’90 chi era in cerca di maestri non partiva più verso gli Stati Uniti, ma verso la Germania, la Francia, il Belgio o l’Olanda. Poi le scelte si sono più diversificate. Ora si va anche in Spagna o in Grecia per una serie di jam, o in Giappone a studiare con un maestro di Butho.  Così tra i nuovi autori c’è chi conosce il Metodo di Jean Cebron, chi è più legato all’universo della Contact. Tra i giovani è diffusa la pratica dell’Aikido, e girano varie tecniche di Floor Work. Questo crea corpi più dinamici. Rischio. Spettacolarità. Poi ci sono danzatori che vengono dal circo, altri che hanno fatto break dance o hip hop. Molti coreografi si avventurano nell’esplorazione dell’interattività, sistemi di motion capture, elaborazioni computerizzate, progetti fortemente interdisciplinari, ecc..
Si è alzato il livello degli interpreti e c’è una mobilità tra i paesi, favorita anche dal sostegno dell’Europa.
Oggi è tutto meno leggibile, meno necessario, meno profondo, ma potenzialmente più ricco.

Una risposta-racconto la tua molto ricca e fertile. Di molte cose di cui tu hai parlato, naturalmente in maniera sintetica, si potrebbe conversare a lungo.
Vorrei provare ad elencare qualcuno di questi aspetti, aggiungendo qualcosa anche io, fermo restando che questa rubrica si sta occupando e continuerà ad occuparsi di questi temi, continuando un viaggio il più possibile “aperto”.

Prima di tutto, vorrei parlare di questo sentimento avventuroso che permea il racconto della tua formazione. Credo che sia una questione fondamentale: non può esserci una formazione autentica senza l’avventura. Quell’avventura esteriore ed interiore che si nutre della magia degli incontri con luoghi e persone e che alimenta il sentimento dell’infinità possibilità.
Una vera formazione, scelta, voluta, appassionata deve, a mio parere, procedere sul filo paradossale dell’abbandono: quello di poter trovare un’altra cosa, un’altra disciplina, un altro paese, un altro modo diverso da quello che stiamo vivendo.  Altrimenti la formazione non solo è noiosa ma non ci mette in gioco. Naturalmente l’intimità dello studio ha bisogno anche di una profondità verticale, di una concentrazione e di un isolamento intenso. Ma se negli anni della formazione un artista impara ad oscillare, tra focus interno e focus esterno, tra essere e non essere, allora forse questo imprinting resterà nel suo percorso a lungo.

Secondo, l’importanza dei maestri che oggi non c’è più, come tu dici. Abbiamo ucciso non tanto i maestri quanto l’idea di confrontarsi con loro. Siamo nell’epoca dell’assenza del padre e in cui le madri ondeggiano tra rivendicazioni e sensi di colpa, sensibilità e apatia restando comunque sempre troppo rassicuranti e protettive; e così i figli hanno dei bersagli o troppo in movimento o troppo evanescenti.  Non voglio essere superficiale e la filiazione artistica ha logiche diverse da quelle famigliari, tuttavia credo che si possa riconoscere in generale che il confronto-scontro generazionale è diventato sempre più difficile (e sterile), quasi assente, paradossalmente, proprio perché i “ruoli” si sono troppo avvicinati.
E poi questo soggettivismo-relativismo senza fondamento, che non ha attraversato il mare dell’oggettività, che ha perso il senso graduale e quello gerarchico (di una gerarchia intelligente e stimolante, non inibente) ha creato individui sempre più soli che soffrono di qualcosa che non riescono, forse, neanche più a riconoscere, rispetto a noi. Come se il vuoto fosse un istinto sepolto che a volte esce e reclama la sua preda, una nostalgia di un altrove mai conosciuto o vissuto. Un legame che mi ricorda i replicanti di Blade Runner…

La terza cosa di cui mi piacerebbe parlare è la ricchezza degli orientamenti della cultura italiana di quegli anni. Il Novecento è stato un secolo molto intenso, lo sappiamo, ma in quei trenta quaranta anni del dopo guerra, l’Italia ha espresso una complessità e una ricchezza tali che forse… ora siamo molto stanchi, molto provati, come lo si è, semplicemente ed organicamente (per citare questi due bei aggettivi che hai usato all’inizio della tua risposta), dopo un lungo e forte sforzo. Una ricchezza che coniugava il reale e l’astratto, la fede e il dubbio, l’amore e il non amore, la pesantezza e la leggerezza, la commedia e la tragedia, l’io e la collettività etc…

Anche io ho studiato e lavorato con Quartucci e la sua zattera, ed è stato avventuroso e appassionante, doloroso ed eccitante, è stato un lavoro complicato uccidere questo padre tanto vitale quanto assente, già corrotto da quello che sarebbe a breve accaduto (dunque artefice egli stesso), eppure ancora abitato da una febbre meravigliosa. Pensando a quegli anni, al suo concettualismo già un po’ sordo, mi viene da dire che il concettualismo senza una temperatura intorno è inutile.
Il concettualismo, che si fonda non solo sull’assenza di qualcosa o sul presentimento di un’altra realtà, mentale o divina non importa, senza una realtà viva, senza un’atmosfera interessante e interessata, diventa forse mero esercizio formale, piuttosto innocuo.

E questa perdita di interesse della società italiana per l’arte a chi la si deve? Le risposte sono tante ma certo quest’assenza dei critici, questa perdita di figure come quelle che hai citato (e altri se ne potrebbero fare) è un segno della generale perdita progressiva della capacità di ascolto. Per essere dei testimoni, dei “curatori”, degli insegnati, per “tradurre”, bisogna prima ascoltare con attenzione e questo è venuto meno. Aldilà dell’intelligenza dei critici di oggi, della loro preparazione e passione, che, mediamente, sono assai inferiori rispetto a quelle del passato, è venuto a mancare, semplicemente, l’amore per gli artisti, l’ascolto profondo della loro opera e della loro vita. Certo, già ai tempi degli inizi di Grotowsky e Bene, di Pina Baush e Kounnelis, i critici erano artisti mancati, spesso invidiosi e desiderosi di potere. Ma col tempo questa tendenza della personalità è diventata una nevrosi normale, sciogliendosi nella più generale malattia sociale.

Altro argomento importante che tocchi, infine, è l’Europa. Vorrei uscirmene con una domanda: e se invece di fare la moneta unica avessimo fatto (prima) una televisione europea, priva di pubblicità magari, nella quale programmare format culturali e di costume creativi ed intelligenti? Dove ospitare i giovani degli erasmus e i vecchi della prima e seconda guerra mondiale, insomma tutte le generazioni, una televisione culturale capace di mettere insieme le più significative esperienze di ogni paese, ma che non si fermava agli anchor man, alla ripetizione sedante e che invece “trasmetteva” continuamente un movimento, una circolazione antica e nuova, riflettendo la sua identità liquida eppure stratificata (frutto di una civiltà così ricca); se l’Europa avesse fatto questo che cosa sarebbe successo?
Certo è una domanda piuttosto ingenua…
Quindi è meglio tornare a temi a noi più consoni. E pensando a quella battuta che hai fatto sulla musica che si è allontanata dalla danza, segno forse della perdita del corpo della musica (inutilmente arginato dai ritorni alle musiche e balli tradizionali che, come ho scritto in un mio precedente articolo ispirato dalla scomparsa di Ray Manzarek, celebrano un’isteria di massa che non trova redenzione o catarsi sufficienti) ti chiedo:

perché il teatro sperimentale è tornato alla parola e la musica ha viaggiato da sola, secondo te? E questa interdispiplinarietà contemporanea, che soprattutto vuole l’uso del video e della tecnologia, che cosa ha portato alla danza? O ha tolto?
Esiste oggi un performer, un interprete, direi anche un corpo (intendendolo nel senso più ampio) che ha interiorizzato veramente le dinamiche degli altri linguaggi creativi, che ha sedimentato ed elaborato i tentativi (e i fallimenti) delle avanguardie storiche e dell’atmosfera creativa degli anni “60 e “70? Faccio un esempio più pratico: esiste un danzatore che, aldilà dei proclami, sa lavorare davvero con lo spazio, che sa diventare campo lungo e primo piano, che sa custodire lo sguardo del pubblico, portandoselo in giro, come diceva con una felice espressione Anna Paola Bacalov, (danzatrice che ha lavorato sia con me che con te e che cito dunque non a caso)?
Che sa diventare informale o formale, ritmico o melodico, tonale o seriale, nel processo immaginativo ancor prima che nel movimento? Che sa attaccare il pubblico (come incitavano Picabia e Tzara nel loro manifesto) e  difendersi consapevolmente e non egoisticamente (come suggeriva Kantor), che sa offrirsi e usarsi, che sa diventare bianco e smarrito e poi acceso e ubiquo, che sa essere e non essere?
O piuttosto il corpo, in questo inizio di millennio, celebra la sua sconfitta anche se creativa e indomita (simile a quella di un dinosauro che continua a sbattere il corpo con violenza per non farsi congelare) nel momento in cui si fa prendere e riprendere dalla tecnologia?

Un’altra volta siamo sulla stessa lunghezza d’onda… credo anch’io che il corpo abbia perso terreno nei confronti della tecnologia. Non tanto perché non ci sia più un corpo “sapiente”, ma perché non c’è più nessuno che lo guarda. Non solo nella danza, ma in generale nella vita di tutti i giorni. E non è un passo avanti… Nel raccontare dico e basta. Non interpreto e non approfondisco, ma questa convinzione emerge dalle mie risposte, da come individuo i fatti e li metto in fila.
Non capisco perché incentivare nell’arte e nelle politiche di sviluppo ormai soltanto l’uso delle NUOVE TECNOLOGIE… Addirittura con una pioggia di finanziamenti pubblici…!!!!
Se penso ai prodotti artistici “tecnologici”, per un’opera egregia e necessaria, quante ce ne sono che non lo sono affatto? Osservo che in palcoscenico, ma perfino al cinema, l’uso facile della tecnologia, quando addirittura non rappresenta per l’autore una vera e propria scappatoia, uccide i corpi vivi e a lungo andare crea un vero e proprio logoramento… una saturazione… una nausea… una distanza…una voragine percettiva.
Lo zapping, nato per divertimento o per noia, sta generando una mutazione epocale. Quanti bambini soffrono di un disturbo dell’attenzione? Quanti adolescenti faticano a trovare un centro? E un senso nella loro vita? E il problema non è il lavoro che non c’è…
Vedo ogni anno passare di qui molti studenti e molti danzatori. E vado a vedere qualche spettacolo ogni anno all’Auditorium. Giuro che anche senza spostarmi troppo, anche solo da qui, da questo piccolo paese dove si incontrano tante persone, posso accorgermi benissimo dell’esistenza di tanta gente che lavora bene. Potrei farti decine di esempi di interpreti giovani e meno giovani che hanno interiorizzato di tutto e di più, anche italiani… ma oggi questo interessa a qualcuno?
Quante persone dedicano tempo a guardare? Forse all’interno di una terapia di gruppo…

Forse la danza, il mondo della danza doveva fare di più in questi anni per arginare questa perdita del corpo. La danza ha un immenso potere sull’umanità. A mio parere bisogna riflettere sulla debolezza del mondo della danza contemporanea. Forse è successo qualcosa di paradossale: danzatori e coreografi si sono rinchiusi troppo nel movimento del corpo o nel suo assedio, nell’esprimere un disagio, e hanno contribuito a questa perdita. Se gli dei non vogliono più volare, non credono più di poterlo fare, allora anche gli uomini perdono la speranza.
Io amo Pina Bausch perché nel suo lavoro non c’è debolezza, c’è la forza di Stravinsky e del rock, l’alba nietzschiana e il crepuscolo  felliniano, il mito e il presentimento, il dolore e l’amore, ma qui in Italia la danza ha avuto un altro carattere. Non vorrei tornare alla mia domanda della prima puntata ma quella bella risposta che hai dato sulla debolezza-timidezza  della danza italiana, e che parla degli aspetti “personali” di ogni artista (così importanti), può anche portare ad una considerazione, forse eccessiva,  sulla nostra incapacità di vivere e di morire con coraggio.
Il teatro, specchio implacabile,  può rivelarci questo. Il teatro profondo, aldilà dello spettacolo, può mettere in scena il saper vivere e il saper morire. Se il teatro, prima di tutto, ha coraggio. Non lo dico con toni d’annunziani ma semmai semplicemente politici.  La danza poteva essere rivoluzionaria, poteva (e sempre può) cambiare le nostre esistenze.
Così ti chiedo, infine, un pensiero sulle parole e la danza.
Quando si pensa alla danza si pensa al corpo, ma aldilà delle tecniche e degli stili espressivi che si usano, pensi che sia necessario raccontare la danza anche con le parole ad un pubblico che appare sempre più sordo di fronte alla ricchezza e alla complessità del corpo? Se si, in che modo?

Certo che si debbono usare anche le parole, poche parole, semplici e incisive. Nei programmi di sala. Magari in un’intervista radiofonica. Se c’è l’occasione, un po’ di domande al termine dello spettacolo.
Si potrebbe parlare di danza in contesti diversi. Nel corso di una conferenza che traccia il quadro di un’epoca, o racconta l’evoluzione di un genere. Credo il supporto dei mezzi audiovisivi sia indispensabile. La danza innanzitutto bisogna vederla. Poi ci sono diversi livelli di lettura, come per un quadro, un libro o una partitura musicale. Si può rimanere in superficie, tracciare delle linee-guida per cominciare a vedere le differenze. Si può andare più in profondità. Nel 1998 abbiamo organizzato a Tuscania un convegno. Si chiamava “leggere il pensiero danzato”. Varie persone erano invitate a vedere in una mattina tre diverse coreografie ed erano invitate a scrivere quello che vedevano. Poi si leggevano gli appunti degli spettatori e cominciava un confronto tra gli artisti e il pubblico, con la mediazione di un “esperto” che in quel caso era Ada D’Adamo, avendo a disposizione il video appena girato per entrare nei dettagli quando serviva.
Più recentemente Giorgio Testa, nel gruppo di osservatori creato a Tuscania all’interno del Progetto Eti “Spazi per la Danza Contemporanea”, ha coinvolto un piccolo gruppo di persone a seguirlo nella sua esplorazione “marziana” di un’arte che non conosceva e ha trovato insieme a loro concetti e parole per comprendere e valutare questi “oggetti misteriosi” che arrivavano qui.

C’è qualcuno, come Carlo Locatelli, che si è posto il problema di dare la parola al movimento e si diverte a fare delle conferenze danzate. In una di queste è nudo e parla dell’anatomia e della sua coscienza del corpo.

I Labanisti hanno sempre parlato di approccio pratico-teorico per comprendere la logica del movimento come linguaggio. Anche l’universo del Body-Mind Centering può offrire preziosi strumenti di conoscenza e analisi, con il suo approccio esperienziale e la sua coscienza del senso.
In fondo non ci vuole molto a entrare nell’analisi del movimento. Sono concetti elementari. Una dimostrazione dal vivo può essere molto utile. E una sperimentazione personale magari nel corso di un breve laboratorio ancora di più. Credo infatti che il mezzo più efficace per comprendere la danza sia danzare. Quantomeno muoversi. Fare esperienza del come e del perché.
Anche gli studi degli artisti possono giocare un ruolo in questo senso. Gli studi non sono “le scuole”. Non hanno obiettivi commerciali e di numero, ma culturali e di ricerca. Molte persone della mia età hanno aperto uno studio. Penso ad Ariella Vidach e al Did Studio di Milano, a Roberto Cocconi, che ha creato a Udine Lo Studio, a Virgilio Sieni che ha creato Cango a Firenze. Ma ci sono stati altri: Rossella Fiumi a Orvieto, Roberto Zappalà a Catania, lo Studio Blu di Alessandro Certini a Sesto Fiorentino, la Chiesa di Spello della Sosta Palmizi, Vera Stasi a Tuscania con il Supercinema, Roberto Castello con Spam a Lucca, Caterina Genta a Spoleto con il Cantiere Oberdan, la Oplas a Umbertide, il Duncan a Roma. E molti altri che io conosco di meno, ma che esistono… Tutte queste realtà svolgono già una funzione molto incisiva nell’aiutare a guardare la danza, nell’aiutare a pensarla… Sono centri attivi da cui possiamo aspettarci molto.

Bene aspettiamocelo allora. La nostra storia non è finita. Siamo stanchi, certo, ma il corpo sa come fare. E se il corpo sa… saprà trovare la sua strada… Magari anche la nostra morte sarà una bellissima danza, se riusciremo a guardarla…

Paolo De Falco

Fu Vera Stasi?

Aldilà degli accademismi, dell’eterea “durezza” di Carla Fracci o delle sonnolente produzioni delle nostre stagioni liriche, c’è stato un momento in cui anche in Italia la danza stava diventando contemporanea. Ne parliamo con Silvana Barbarini, fondatrice tra l’altro del Gruppo Danza Contemporanea e dell’Associazione Vera Stasi.

Fu Vera Stasi?

Dopo aver parlato e profetizzato la caduta a terra di Anna Oxa, segno, direbbe qualche demoniaco guaritore, che l’energia negativa è in grado davvero di fermarci oppure che chi sfida il grande fratello, nonostante il suo fragile cinismo, si logora, s’indebolisce e rischia seriamente la salute, parliamo oggi dello stato di cose della danza italiana. Uno stato non certo felice e di cui nessuno parla affatto. Come se il danzare non fosse cultura, non fosse un’energia in grado di cambiare il mondo. Di cambiare noi.

La danza, infatti, nonostante ancora molte bambine vengano iscritte alla tante scuole che affollano le nostre città e paesi, consegnate spesso alle maestre come pacchi postali a cui mettere presto un tutù, è sicuramente la sorella minore tra le arti. Povera, relegata ad un ruolo tanto ideale, tanto lontano dalla volgarità del  “reale”, quanto deformato da questa tensione sentimental-estetica, la danza italiana langue sopravvivendo a questo triste mondo simile ad un cigno dimenticato in un laghetto e dedito solo a specchiarsi senza fine.
Eppure, aldilà degli accademismi, aldilà dell’eterea “durezza” di Carla Fracci o delle sonnolente produzioni interdisciplinari delle nostre stagioni liriche e danza vento 1dei musical tanto di moda, aldilà del commercio dei tutù e delle luci colorate che li illuminano a fine stagione, emesse dai tanti light designer (un tempo si chiamavano tecnici delle luci) che nel bene e nel male si sforzano di portare un po’ di vitalità al cigno morente (magari levassero tutti quegli inutili effetti che offuscano il meraviglioso spettacolo della “morte”), e aldilà dell’energia “coatta” del ballo televisivo, c’è stato un momento in cui anche in Italia la danza stava diventando contemporanea.
Tra gli anni settanta e gli anni ottanta, infatti, rappresentanti di una generazione cresciuta a rock e immaginazione, si sono messi ad esplorare il movimento e la sua stasi, guardando a quello che accadeva in Germania, Francia o Stati Uniti e riconoscendo di avere, come italiani, il dono della musicalità anche nel corpo. Anche nel pensiero.
Poi, dalla fine degli anni ottanta, seppure forse finanziariamente le cose sono anche migliorate con il nuovo millennio e il finanziamento pubblico, riconoscendo alcune priorità e questioni, ha tentato di organizzare meglio le modalità del suo sostegno, il paesaggio creativo, invece, si è gradualmente spento e in sintonia con tutti gli altri mestieri e professioni, le generazioni si sono scollate e con loro si è scollata la storia che ora brancola a pezzetti come un puzzle senza più una scena.
Ne parliamo con una coreografa e danzatrice, con un’organizzatrice culturale che è stata una delle protagoniste di quella stagione e che continua a lavorare senza sosta, con una tenacia e un amore che dovrebbero non solo essere riconosciuti seriamente ma che dovrebbero servire a indicare una strada ad altri mestieri e professioni, tanto spesso focalizzati solo sul dio denaro. Quel dio che sa ballare come un demonio, perdendo ad ogni passo la sua stessa forza. A meno che non lasci andare il luccichio che lo ricopre e che insegue senza sosta e faccia circolare la sua… luce.

danza vento 2Questa artista è Silvana Barbarini che è stata una fondatrice del Gruppo Danza Contemporanea (Genova, 1981), dell’Associazione Vera Stasi (Roma, 1985), dell’ Associazione Tuscania Teatro (Tuscania, 1997), che ha fatto parte del gruppo di studio Musica2000/Danza d’Autore (1994-96), che ha partecipato alla creazione dell’ Associazione Coreografi Autori Indipendenti (1995).
E che ha curato la direzione artistica di alcuni progetti come DANZA D’AUTORE: MEMORIE, REALTA’, PROSPETTIVE (Roma, 1994); TUSCANIA TEATRO, RESIDENZA MULTIDISCIPLINARE DELLA REGIONE LAZIO (1997-2000); TUSCANIA DANZA: SEMINARI, LABORATORI, INCONTRI, CONFERENZE (2001-oggi); PROGETTI PER LA SCENA (2012-2013).

Allora Silvana, com’è oggi la situazione della danza italiana? Mi riferisco soprattutto al mondo della danza contemporanea, del teatro danza ma anche a quello della danza moderna o classica o, ancora, a quello dei balli popolari? Mondi, naturalmente, molto lontani ma raccontaci di come si balla oggi in Italia (magari anche come lo si fa nel privato se te la senti). Mi interessa il tuo punto di vista generale, il tuo sguardo antropologico, la tua lettura del paese come coreografa e come animatrice culturale…

Da un po’ di anni vivo a Tuscania, un piccolo borgo dell’Alto Lazio. Ho un contatto quotidiano con le persone “normali” più che con la situazione della danza contemporanea italiana. Quindi partirò proprio dal privato. Credo che oggi in Italia si stia soprattutto fermi davanti a un computer. Chi si muove va in palestra o in piscina puntando a tenersi in forma.
Sono in pochi a scegliere “il ballo” come valvola di sfogo o la danza come pratica quotidiana. Negli ultimi anni mi sono resa conto di una crescita di attrazione verso il tango. Ci sono corsi ovunque. In ogni città c’è una “tangheria”. Anche la danza del ventre ha i suoi adepti, o meglio le sue adepte. Un altro fenomeno di massa è la partenza verso la Puglia alla ricerca di nottate estive di pizzica. Queste sono le scelte di chi nel movimento cerca sensualità o catarsi.
Mi è capitato di incontrare le danze popolari in contesti in cui per un motivo o per l’altro si cerca di favorire la socializzazione: scuola, gruppi misti, progetti danza vento 3educativi. Ma non c’è più una trasmissione di padre in figlio delle danze. Come non c’è più una trasmissione di padre in figlio dei mestieri.
Qui nella Tuscia è solo nella comunità dei pastori sardi che ti capita di vedere ballare qualcuno la sera della festa.
I giovani socializzano bevendo una birra, o meglio rompendo qualche bottiglia di birra in giro per il paese. Non credo che i ragazzi danzino. Chissà se ancora qualcuno balla in discoteca…
Il divertimento, quando c’è, mi sembra legato all’hip hop.  E sorprendentemente anche in modo trasversale rispetto alle fasce di età. A un corso di hip hop oggi può iscriversi una famiglia intera.
Questo è il mondo delle persone che danzano per sé, che raramente diventano danzatori di professione e quasi mai “spettatori” di spettacoli di danza. Come animatrice culturale non mi capacito che non vadano in massa a vedere gli spettacoli (ma è così) per esempio gli studenti delle scuole di danza e delle accademie, che invece danzano per scelta e per passione.
Questa è l’idea che mi sono fatta delle scuole di danza: mondi chiusi tra un saggio di fine anno, un premio di categoria, un seminario estivo irregimentato. Giudizi. Muri a difesa di un territorio. Guerre sanguinose. Eppure ogni tanto da una scuola italiana esce un danzatore… Difficilmente un coreografo.
Credo che attualmente alle scuole si possa chiedere solo una breve formazione di base. Poi chi vuole danzare deve velocemente migrare verso i vivai delle compagnie che lavorano, partecipare alle creazioni, vivere la sua vita e nutrire la sua crescita incontrando maestri originali e altre arti.

danza vento 4Già. Credo che la perdita della danza e del corpo sia anche in relazione con la perdita del pensiero. Sembra un paradosso dato che la danza si nutre di depensamento, di abbandono della razionalità, celebra l’energia “corale” che può radunarsi anche in un solo corpo, eppure se non c’è il pensiero, se manca l’atto profondo del pensare, anche la danza si spegne o si riduce a divertimento, a fuga. Ma pensando a questo voglio chiederti se credi che la danza contemporanea, almeno in Italia, abbia poco “pensato”, abbia poco proposto di essere vissuta, letta anche con il pensiero.
In altre parole la danza contemporanea può soffrire o aver sofferto di una sorte di “chiusura” psichica, di una condizione un po’ immatura degli stessi danzatori e coreografi? Intendo dire che la danza contemporanea, specie quella italiana, forse ha sofferto di una timidezza che si è gradualmente strutturata, offrendo un corpo che spesso diventava il riparo per l’interprete, il luogo “tecnico” dove esiliarsi dal mondo e magari anche dalle proprie emozioni e rabbie più… pericolose. Dal pensiero sulla realtà. Che ne pensi?

Penso che chi ha la fortuna di danzare è in contatto più che altro con la vita e stabilisce una relazione intima, rispettosa e profonda con il suo corpo e con chi guarda. La rabbia? Serve soprattutto a farsi del male. Io non amo essere arrabbiata. Per fortuna non sono spesso arrabbiata. E non mi ritengo pericolosa. Vorrei essere incisiva, sintetica. Vorrei colpire nel segno. E nella creazione non mi sono mai riparata dietro la tecnica. Ho sempre cercato di seguire un filo.
Certo il tuo corpo e il tuo pensiero sono impregnati di quello che hai incontrato e praticato. E se hai praticato una tecnica questo emergerà nelle tue improvvisazioni.
La mia generazione veniva dall’astrattismo e dal concettuale. I nostri maestri sono stati Cunningham, Nikolais e tutti i postmoderni. Il teatrodanza degli anni ’80 veniva più da Carolyn Carlson che da Pina Bausch. Si parlava per immagini, ma erano più che altro visioni, immagini poetiche. Il materiale era selezionato per associazione di idee. E la costruzione drammaturgica era più concettuale che narrativa. Sceglievi una zona di indagine, trovavi materiale, creavi un’architettura che potesse contenere questo materiale.
Negli anni ’80 non mi sentivo così esiliata. Quello che facevo era inserito in un contesto chiaro. Sentivo di comunicare con il mio pubblico e sentivo l’attenzione della stampa. Adesso non so bene a chi rivolgermi quando metto in scena un’opera coreografica. Posso dire che vivo un po’ di alienazione e produco molto meno.
C’è effettivamente qualcosa che si è indebolito, che si è perso, c’è qualcosa che non si è alimentato abbastanza. Qualcosa su cui non abbiamo continuato a costruire.
La debolezza viene dalla mancanza di perseveranza. In certi casi dalla mancanza di chiarezza. O di coraggio. In realtà non c’è una regola che vale per tutti. C’è chi viene da scuole che si mordono un po’ la coda e gira a vuoto senza andare da nessuna parte.. Penso alle scuole più imprigionate in uno “stile codificato”. C’è chi non avrà mai delle carte da giocare perché non è quella la sua vocazione. Non tutti nascono autori…C’è chi fa un bel lavoro e poi si ferma. C’è invece chi a un certo punto parte come un treno e non si ferma più…
Negli anni ’80 sono partiti bene e poi sono rapidamente “entrati in crisi” tutti i gruppi nati come collettivi di lavoro, i gruppi che venivano da una scuola di pensiero più focalizzata sull’improvvisazione e sulla composizione più che sulla tecnica (penso alla spinta che hanno impresso Kathy Duck in Toscana, e Nikolais attraverso Carolyn Carlson un po’ in tutta Italia). Dopo un paio di creazioni veramente azzeccate, tutti i “collettivi” si sono smembrati. Poi è stata dura ricominciare daccapo ognuno da solo.
Tra l’altro in Italia c’è una debolezza del contesto in cui ti trovi a operare.  Pochi mezzi e pochi interlocutori a tutti i livelli. Scelte bizzarre… Risulta difficile creare continuità e appuntamenti significativi con il pubblico. Questo non aiuta le cose a prendere il giusto corpo.
Per esempio adesso non sono per niente d’accordo su questa politica di esaltazione e massacro dei giovani coreografi. Forse l’investimento sui giovani andrebbe più indirizzato alla crescita dei giovani danzatori. Borse di studio per lavorare presso compagnie. Un autore trova da solo la sua strada al momento giusto e senza troppi “incentivi”.  Certo bisognerebbe creare occasioni di monitoraggio e una buona produzione dovrebbe essere premiata, poter girare ed essere vista in tutto il paese. E un buono studio dovrebbe poter essere visionato e magari sostenuto da qualche centro con le spalle più larghe.  Quando abbiamo visto al Forte Righi ALLEATE DISTANZE di Piera Pavanello, invitati un po’ per caso a una prova aperta, lo abbiamo sostenuto in tre. Ma poi Piera aveva più di 35 anni e quell’anno ha girato pochissimo…

Quando ho visto il film di Wenders su Pina Baush ho pensato che bisognerebbe farlo vedere a tutti i ragazzi delle scuole. Renderlo obbligatorio, magari insieme ad altri documenti realizzati nel tempo e in altri luoghi.
Perché non facciamo una battaglia seria, noi artisti ed operatori, per affermare l’importanza di un’educazione artistica autentica che radichi nelle scuole non solo la musica, la danza, il teatro, il cinema, insomma tutte le arti, ma le loro espressioni più complesse, più dedite alla ricerca, più contemporanee? Perché non facciamo una battaglia per “imporre” lo studio del linguaggo intermediale, ovvero di un linguaggio che ricerca e restituisce la contaminazione dei segni, dei linguaggi creativi anche con l’apporto delle nuove tecnologie?

Quello che dici è vitale. E non è nemmeno difficile. Come c’è un programma di letteratura, come si leggono le poesie e si studiano i classici, così si dovrebbe concepire un vero programma di storia delle arti del ‘900, da veicolare con mezzi audiovisivi, libri e incontri. Quello che trovi solo all’università e in settori molto specializzati e in poche città d’Italia (il Dams non è nemmeno dovunque), lo potresti mettere a disposizione molto prima…
Qui a Tuscania nel 2001 con Laura Delfini e Roberto Grisley abbiamo messo in mezzo la biblioteca per una serie di conferenze, con due monitor e un pianoforte dal vivo e prima avevamo invitato le scuole a una visione gratuita di Billy Elliot. Non siamo andati molto oltre, ma già ci sembrava di avere fatto una rivoluzione, con Roberto che suonava e spiegava la genesi, i passaggi, il senso della Sagra di Strawinsky e Laura che mostrava estratti di coreografie nate su quella musica, realizzate in diverse epoche per finire con la versione di Pina Bausch.
Ora con il Supercinema ristrutturato sarebbe molto facile creare un appuntamento settimanale.. a volte lo penso anch’io quando trovo su youtube pezzi di storia da cui non si può prescindere.
Se non vogliamo che a dettare legge continui a essere il gusto dei Centri Commerciali e delle Televisioni, si, bisogna creare appuntamenti diversi nelle nostre città, luoghi di riferimento, e questa tua idea di mettere al centro la scuola mi sembra molto giusta e anche praticabile.

Si io penso alle scuole, ai bambini, da cui bisogna ricominciare per ricostruire il paese. Concentrarsi molto su di loro aiuterebbe pure il nostro presente. Anche perché i Dams, le Università, sono diventate dei perfetti luoghi della pubblica ignoranza, come mi disse una volta un taxista romano lasciandomi su Viale Trastevere e additando il famigerato Ministero.
Ma continuiamo a parlarne la prossima settimana. Voglio che tu ci racconti degli anni della tua formazione e dei tuoi inizi, di come hai visto cambiare l’Italia e il mondo. Credo che andare indietro, aldilà della nostalgia (romantica o inevitabile che sia) possa servire a noi tutti per capire da dove veniamo e dove eravamo arrivati. Quale movimento avevamo cavalcato e propagato prima che questa stasi ci prendesse inesorabilmente. Magari per dubitare anche di questa stasi o inquadrarla dentro una prospettiva più consapevole e misteriosa insieme.
Sono convinto che tu potrai aiutarci a capire la meravigliosa complessità e semplicità del tempo.

Paolo De Falco